Alimento ottenuto dalla cottura nel forno di una pasta lievitata preparata con farina di frumento (o di altri cereali), acqua, sale e lievito (gli ultimi due ingredienti in alcuni tipi possono mancare). Con riferimento ai diversi modi di lavorazione e di cottura, alla farina adoperata, agli ingredienti aggiunti, si possono distinguere numerosi tipi di p. (fig. 1): p. bianco, di farina di frumento; p. giallo, di farina di granoturco; p. nero o integrale, di farina integrale; p. azzimo, senza lievito; p. di glutine, senza amido, per diabetici ecc.
Con riferimento alla forma e alla grandezza: p. viennese, lavorato in piccole forme di pasta molto molle, con crosta lucente di colore caratteristico, ottenute spalmando le superfici delle forme con burro sciolto e mantenendo nei forni notevole umidità; p. francese, a forma di lungo sfilatino, impastato senza aggiunta di condimenti; p. ferrarese, friabile e leggero, a forma di cornetti intrecciati; p. toscano, senza sale, in pagnotte larghe e basse.
Figurazioni sui monumenti, descrizioni di antichi testi, ritrovamenti archeologici, documentano l’uso del p. già all’epoca degli antichi Egizi. Presso i Greci il p., sotto forme diverse, dalla galletta di farina d’orzo (μᾶζα) alle tonde pagnotte di farina di grano (ἄρτος), era alimento comune; presso i Romani da antica età soppiantò il puls, tanto che fino dal 168 a.C. esistevano in Roma forni pubblici sotto il controllo degli edili; i lavoranti (pistores), per lo più schiavi, erano all’epoca imperiale organizzati in corporazione (il loro lavoro è raffigurato nei rilievi della tomba di M. Virgilio Eurisace). Ma certo la cottura del p. doveva essere già praticata nelle grandi case private in forni domestici, dei quali si sono trovati esemplari a Pompei.
Alla preparazione casalinga del p. si tornò dopo la caduta dell’Impero, finché con l’affermarsi dell’organizzazione feudale i signori imposero l’uso del proprio mulino e del proprio forno. Quando nelle città tornò a svilupparsi l’attività economica vi riapparvero i fornai come artigiani indipendenti raggruppati in corporazioni, ai quali il cliente forniva la farina o addirittura il grano. Il progresso tecnico ed economico che caratterizzò l’età del Rinascimento si rifletté anche nella più raffinata e varia lavorazione del p., in cui eccellevano soprattutto i fornai italiani; più tardi il primato del p. di lusso passò a Vienna (17°-18° sec.).
I tentativi per creare macchine adatte al lavoro di panificazione risalgono alla seconda metà del 18° sec. (si ricordano la macchina impastatrice del fornaio parigino Salignac, 1760, quelle di Cousin, 1761, e di Keferstein, 1785), sebbene già i Romani usassero primordiali impastatrici costituite da una vasca circolare entro la quale rotava, mosso da un maneggio di cavalli, un albero verticale munito di rami trasversali. Nel 1810 il fornaio parigino Lembert ideò la prima impastatrice pratica, che però aveva ancora l’inconveniente di far avvenire l’impasto in ambiente chiuso. Le modifiche si susseguirono rapidamente, mentre contemporaneamente s’introduceva l’uso di polveri di panificazione (1838), basato sugli studi di J. von Liebig. Le scoperte di L. Pasteur, attraverso la conoscenza della fermentazione alcolica, portarono all’uso dei moderni lieviti compressi. La costruzione e l’uso delle altre macchine per la panificazione, quali le formatrici, le spezzatrici, nonché l’introduzione dei nuovi forni elettrici e a radiazione, sono molto più recenti e si può dire che abbiano rivoluzionato la tecnica della panificazione tanto che oggi ci sono impianti di panifici totalmente automatici che semplificano e razionalizzano il lavoro.
I tipi e le forme di p. cambiano oggi non solo da un paese a un altro, ma anche da regione a regione nello stesso paese. Per es., in Francia il p. è preparato specialmente in forme grosse da 1 a 2 chili; il p. di massa inferiore a 700 g in forma di filoncini (baguettes) è chiamato p. di lusso e quello inferiore a 300 g p. fantasia. In Germania è di uso comune il p. fatto con farina di grano e di segale. In Ungheria sono in uso forme grosse da 2 a 3 kg di p. misto di farina di grano e farina di patate.
In Italia le forme di p. sono numerosissime, molte inferiori ai 500 g. Secondo la normativa vigente, p. è il prodotto ottenuto dalla cottura di una pasta convenientemente lievitata, preparata con sfarinati di grano, acqua e lievito con o senza aggiunta di sale comune. Il p. può essere prodotto con farina di tipo 00, 0, 1, 2, con farina integrale, con semola o con semolato di grano duro e deve essere contraddistinto con una denominazione nella quale è indicato il tipo di farina impiegato. È denominato grissino il p. a forma di bastoncino ottenuto dalla cottura di una pasta lievitata, preparata con farina di grano tenero di tipo 0 oppure di tipo 00, con acqua e lievito con o senza sale. Possono inoltre essere prodotti p. e grissini speciali con l’impiego di burro, olio di oliva, strutto, latte, polvere di latte, mosto d’uva, uva passa, fichi, olive, anice, origano, cumino, sesamo, malto, saccarosio e destrosio, zucca, miele e semi di lino. Il contenuto massimo in acqua del pane, qualunque sia il tipo di sfarinato impiegato (a eccezione del p. integrale per il quale è consentito un aumento del 2%) è stabilito per legge e varia in funzione della pezzatura: dal 29% consentito per pezzature fino a 70 g al 40% per pezzature superiori ai 1000 g. Per la conservazione del cosiddetto pane in cassetta, confezionato in involucri chiusi, è permessa l’aggiunta degli acidi sorbico e propionico e dei loro sali nella quantità massima di 2g/kg; è consentito il trattamento con etanolo purché il suo tenore non superi il 2% riferito a sostanza secca e purché il p. non sia già addizionato con acido sorbico o propionico e loro sali.
A vari tipi sono riconosciute le denominazioni DOP e IGP, in quanto prodotti nel territorio nazionale, osservando usi locali e costanti, le cui caratteristiche merceologiche derivano da particolari metodi di produzione. P. di Altamura Prodotto DOP, ottenuto dal rimacinato di semola di grano duro, proveniente dai territori dei Comuni di Altamura, Gravina di Puglia, Poggiorsini, Spinazzola e Minervino Murge in provincia di Bari. Coppia Ferrarese Prodotto IGP, originario dell’intera provincia di Ferrara. Ha una forma caratteristica, data da due pezzi di pasta, con le estremità ritorte, uniti nella parte centrale a formare un ventaglio. P. Casereccio di Genzano Prodotto IGP, proveniente dal territorio del comune di Genzano (Roma). La sua particolarità risiede nel processo produttivo che segue procedure legate alla tradizione locale.
Le farine di frumento, dopo la macinazione, devono subire la stagionatura in ambiente asciutto e sufficientemente aerato per un tempo variabile da poche settimane a più di due mesi, per migliorare le qualità panificanti che sono strettamente legate alla presenza del glutine. La panificabilità di una farina dipende dalla quantità di glutine e dalle caratteristiche reologiche (consistenza, elasticità, resistenza) che esso è in grado di conferire all’impasto. La farina viene impastata con acqua a 20-25 °C, con aggiunta di lievito; la fermentazione che segue favorisce lo sviluppo di anidride carbonica che fa rigonfiare la pasta, rendendola spugnosa e di conseguenza più idonea alla cottura. Allo scopo di rendere più energica l’azione del lievito è consentito l’impiego di cereali maltati, estratti di malto, α- e β-amilasi. Dopo aver effettuato l’impasto, si procede alla suddivisione della pasta nelle pezzature e nelle forme desiderate. Tutte queste operazioni, che precedono la cottura, in un moderno panificio sono eseguite meccanicamente, mediante impianti e apparecchiature costituenti una catena continua. Le forme che hanno subito una certa lievitazione, sono portate al forno ove, sottoposte a una temperatura di 200-300 °C, subiscono la cottura durante la quale si verificano trasformazioni che portano il pane ad assumere una forma stabile e tutte le caratteristiche organolettiche tipiche. All’interno delle forme si ha la formazione della mollica, dall’aspetto poroso caratteristico dovuto alla formazione dell’anidride carbonica, dell’alcol e degli altri prodotti volatili della fermentazione; i granuli di amido si deformano e si trasformano in una specie di salda d’amido più facilmente assimilabile e digeribile. In superficie invece le proteine coagulano, l’amido si trasforma in destrina e in parte caramellizza, dando luogo alla formazione della crosta.
Nei moderni panifici le varie operazioni della panificazione sono in genere compiute automaticamente (fig. 2), con l’uso di apposite macchine e di trasportatori meccanici. Per l’edificio è preferibile la struttura a due piani che consente di attuare i trasporti per gravità. La farina passa dai silos a di deposito nell’impastatrice b attraverso un sistema di pesatura automatico, dove viene mescolata con il lievito, il sale e l’acqua in arrivo a giusta temperatura dai dosatori miscelatori. L’impasto ottenuto è scaricato automaticamente nella spezzatrice volumetrica c; i pezzi a peso stabilito vengono scaricati nei contenitori mobili all’interno di una cella di riposo d, dove sostano per un tempo di circa 10 minuti; all’uscita della cella di riposo, i pastoni cadono in una arrotondatrice conica e quindi con un trasportatore a nastro sono depositati sui pianali in legno della cella di lievitazione automatica finale f per un tempo stabilito in base al peso ed al tipo di pane; dalla cella vengono trasferiti automaticamente nel forno a piano di cottura mobile g a più camere sovrapposte; all’uscita dal forno il prodotto passa sopra un tappeto di raffreddamento h che lo convoglia al confezionamento.
L’impianto, la riattivazione, il trasferimento e la trasformazione dei p. sono soggetti a licenza della camera di commercio. I p., nei centri con più di 1000 abitanti, debbono essere dotati di impastatrice meccanica; nei centri con più di 3000 abitanti debbono, inoltre, avere il forno di cottura a riscaldamento elettrico oppure a riscaldamento indiretto.