Trasformazione dell’ordinamento produttivo in agricoltura, realizzata in seguito a un intervento pubblico nell’economia privata, mediante una ridistribuzione della terra o un riordinamento del regime fondiario. Si distingue dalla riforma agraria in senso stretto che riguarda la riforma del regime dei contratti posti in essere ai fini della produzione, anche se nel linguaggio comune si parla spesso di riforma agraria per intendere la riforma fondiaria.
L’emergere della questione agraria
La questione agraria cominciò a emergere in Italia nel 17° sec., quando il trasferimento dello sviluppo delle attività economiche negli Stati nazionali dell’Europa del Nord determinò la diminuzione dell’apporto dei capitali in agricoltura e della domanda dei prodotti agricoli, addossando allo stesso tempo sull’agricoltura il peso della mano d’opera esuberante. Tuttavia, salvo qualche provvedimento nel Piemonte e nella Savoia con Emanuele Filiberto (abolizione della servitù della gleba), con Carlo Emanuele I (privilegi, sussidi ed esenzioni ai coltivatori specializzati), con Carlo Emanuele II (regolamentazione e incoraggiamento dell’industria della seta), solo nella seconda metà del 18° sec. gli Stati italiani cominciarono a occuparsi della questione agraria. Così Pietro Leopoldo in Toscana abolì i vincoli imposti all’agricoltura e alle classi rurali nei secoli precedenti, liberando il commercio agricolo, procedendo alla bonifica idraulica dei terreni e iniziando una politica di ridistribuzione della proprietà terriera con la legge del 1769 a discapito delle manimorte, sia laiche sia ecclesiastiche. L’imperatore Carlo VI e Maria Teresa d’Austria, che attuarono la perequazione dei tributi f., formando il primo catasto dei terreni, furono presto imitati dal Senato veneziano. Negli Stati meridionali, invece, la politica di soppressione della manomorta fu realizzata solo sotto l’influsso dei governi napoleonici (quotizzazione del demanio feudale e comunale, nonché della manomorta ecclesiastica, disposta dalla legge napoletana del 1806). Nel 1862, subito dopo l’unificazione fu varata la legge generale per l’alienazione dei beni del demanio, cui corrispose in Sicilia, sempre nello stesso anno, la censuazione dei beni ecclesiastici.
L’Italia dopo l’Unità
Lo Stato italiano ereditò dunque una complessa questione agraria. Il problema appariva meno grave al Nord, dove la nascita di una industria moderna produceva effetti positivi sull’agricoltura, che diedero origine in Piemonte e Lombardia a un sistema di tipo capitalistico (il grande affitto), facendo scomparire i vecchi ordinamenti della proprietà signorile e della mezzadria, laddove nelle zone centrali di medio sviluppo agricolo (Emilia, Toscana, Marche e Umbria) il piccolo affitto e la mezzadria continuavano ad assolvere la loro funzione. Nel Mezzogiorno, invece, la crisi agraria era aggravata dall’unificazione perché la concorrenza industriale del Nord soffocava i primi tentativi d’industrializzazione. La legge del 7 luglio 1866 dispose l’incameramento e la restituzione al libero commercio e alla coltivazione dei beni della manomorta ecclesiastica. Questa legge, insieme ad altre che l’avevano preceduta, fece sì che fosse ripartito, su un’area coltivabile complessiva di 15 milioni di ettari, circa mezzo milione di ettari in quote variabili dagli 1 ai 3 ettari a favore di contadini nullatenenti. Ma fu insufficiente, perché la depressione economica generale del Mezzogiorno non consentiva uno sviluppo dell’agricoltura con l’investimento di capitali; per cui le quote, sfruttate per qualche anno con una coltivazione empirica, furono vendute dagli assegnatari (spesso per il prezzo del viaggio che consentisse loro l’emigrazione) ai grandi latifondisti; oppure si andarono frazionando in unità minime e antieconomiche a seguito delle successioni ereditarie.
Il movimento per la riforma f. si acuì dopo la Prima guerra mondiale, estendendosi dal Mezzogiorno alle zone a coltura estensiva e mezzadrili dell’Italia centro-settentrionale. Il moto contadino degli anni 1919-20 sboccò nel decreto Visocchi, che obbligava il proprietario di terre incolte a cederle in coltivazione alle cooperative contadine (r.d. 1633/1919). Il fascismo bloccò ogni iniziativa di riforma f., rispondendo con l’attribuzione all’Opera nazionale combattenti (r.d.l. 1606/1926) dei compiti di trasformazione f. e d’incremento della piccola e media proprietà, nonché con una politica della bonifica integrale. Anche la colonizzazione del latifondo siciliano, intrapresa dal regime fascista (l. 1/1940) non può essere qualificata come riforma fondiaria. La colonizzazione del latifondo siciliano era prevista, secondo l’orientamento politico fascista, non nel senso di ridistribuzione della proprietà terriera, ma in quello della bonifica e della creazione, in seno a proprietà di qualsiasi ampiezza, di una razionale ‘maglia’ di poderi dei quali il coltivatore poteva assumere la gestione o la cogestione mediante contratto agrario.
Dopo la Seconda guerra mondiale
Dopo la caduta del fascismo si ripropose in Italia il problema economico-sociale della riforma fondiaria. L’art. 44 della Costituzione enuncia riguardo alla proprietà terriera: «[…]la legge impone obblighi e vincoli alla proprietà terriera privata, fissa limiti alla sua estensione secondo le regioni e le zone agrarie, promuove ed impone la bonifica delle terre, la trasformazione del latifondo e la ricostruzione delle unità produttive, aiuta la piccola e la media proprietà». Si tornò, così, alla concessione delle terre incolte e insufficientemente coltivate a cooperative di contadini, e si favorì la formazione della piccola proprietà contadina mediante esenzioni fiscali e facilitazioni per mutui, nonché mediante l’istituzione della Cassa per la formazione della piccola proprietà contadina. La legge Sila (230/1950), la cosiddetta legge stralcio (841/1950) e la l. regionale siciliana (104/1950) intervennero in alcune zone della penisola dove ancora esisteva il fenomeno di un monopolio terriero di tipo latifondistico (Maremma tosco-laziale, Puglia, Lucania, Sila, Sicilia, Sardegna e parte della Campania), oppure si riscontravano situazioni sociali di particolare disagio (Delta padano) e di estrema frammentazione del sistema di conduzione di terreni appartenenti a un unico proprietario (Fucino). Si provvide quindi all’espropriazione di terreni identificati, con decreti del presidente della Repubblica, previa corresponsione ai proprietari di indennizzi. L’assegnazione di tali terreni avvenne mediante contratto di vendita con patto di riservato dominio e pagamento rateale del prezzo in 30 annualità. Il riscatto anticipato delle annualità del prezzo era previsto dalla l. 379/1967, con particolari agevolazioni e con una conveniente rateizzazione. Il fondo era peraltro soggetto, anche dopo il riscatto, a vincoli di indivisibilità.
Dalla riforma f. allo sviluppo
Create le nuove aziende contadine si cercò di non isolare l’attività degli enti in materia di riforma f. dal contesto economico-sociale in cui tale attività si svolgeva. L’art. 32 della l. 454/ 1961 (Piano Verde) delegava il governo a integrare e modificare le norme vigenti, al fine di consentire agli enti di intervenire in zone agricole particolarmente depresse e da valorizzare, anche fuori dei territori di riforma, trasformando tali enti di riforma in enti di sviluppo (l. 901/1965). A seguito dell’entrata in vigore dell’ordinamento regionale, il d.p.r. 11/1972 previde il trasferimento alle Regioni delle funzioni amministrative concernenti gli enti di sviluppo operanti in ambito regionale e, in seguito alla l. 386/1976, fu stabilito che le funzioni di tali enti fossero rivolte principalmente: alla promozione e realizzazione dell’ammodernamento delle strutture agricole; alla promozione e allo sviluppo della cooperazione e di altre forme associative; alla promozione e all’intervento nel campo dell’assistenza tecnica, alla informazione socio-economica e alla formazione professionale; alla prestazione di assistenza economica e finanziaria.
Vere e proprie riforme agrarie, dirette a un’ampia ridistribuzione della proprietà terriera furono poste in essere, dopo la Prima guerra mondiale, nei paesi dell’Europa orientale e sud-orientale. Le ‘spinte’ politiche che determinarono tali riforme si ravvisano nella necessità di soddisfare le richieste degli ex combattenti, nell’intento di prevenire moti rivoluzionari attenuando le cause del malcontento. Nei paesi dove la riforma fu effettuata, principalmente mediante espropriazioni (Ungheria, Cecoslovacchia, Polonia, Lituania, Lettonia, Estonia, Finlandia, Romania, Bulgaria, Iugoslavia, Grecia), furono stabiliti i limiti massimi di estensione della proprietà e corrisposte indennità normalmente assai inferiori al valore venale. Dopo un primo periodo di crisi nella produzione, si verificò un generale progresso dell’agricoltura. In Germania la colonizzazione ebbe luogo principalmente mediante distribuzione di terre del demanio o acquistate sul libero mercato; raramente con ricorso all’esproprio. Essa fu particolarmente efficace, anche perché in molte zone s’innestò sulla tradizione dell’Erbhof (successione ereditaria nella proprietà del podere a favore di un unico erede). In altri paesi europei (Inghilterra, Irlanda, Danimarca, Svizzera, Norvegia) l’intervento dello Stato fu diretto a un’opera di colonizzazione che prevedeva l’acquisto, sul libero mercato, di terre da concedere in proprietà o in godimento a coltivatori diretti mediante un corrispettivo di favore. Era prevista talvolta la possibilità di espropriazioni con indennità pari al valore venale dei fondi che erano stati espropriati.