In patologia vegetale, massa di tessuto priva di organizzazione, dovuta a proliferazione cellulare eccitata da qualche stimolo; vi rientrano anche le galle prodotte da insetti in vari organi delle piante (➔ cecidio). I t. hanno forma e grandezza molto varie, da intumescenze di pochi millimetri di diametro a formazioni di più decimetri. I t. sono di norma neoplasie dovute a funghi o a batteri, come le proliferazioni provocate da Bacterium o Agrobacterium tumefaciens, la rogna dell’olivo, i tubercoli radicali delle Fabacee ecc.
Alterazione o processo morboso di un organo che si manifesta con un aumento del suo volume, oppure, in accezione più specifica, formazione che si produce in un tessuto in seguito a una proliferazione cellulare a sviluppo per lo più illimitato e a struttura profondamente aberrante.
I t. si distinguono in benigni, se tendono a rimanere localizzati nell’organo di origine e hanno un accrescimento lento ed espansivo, e maligni, se presentano accrescimento rapido, con ampia infiltrazione degli organi in cui si sviluppano e capacità di diffondersi in tutto l’organismo. Dalla maggior parte degli altri t., che sono in forma di massa solida, si distinguono le leucemie che sono t. sistemici del sangue.
Fattori non ancora definiti fanno sì che le cellule normali e quelle del t. benigno si mantengano localizzate nell’ambito dei propri tessuti di appartenenza. Di solito una capsula fibrosa delimita l’estensione dei t. benigni, consentendone l’asportazione chirurgica; questi t. costituiscono un problema clinico solo quando assumono dimensioni notevoli, comprimendo i tessuti limitrofi, oppure quando secernono un’eccessiva quantità di sostanze biologicamente attive (per es. ormoni).
I t. maligni invadono i tessuti circostanti e le cellule tumorali entrano nel sistema circolatorio, proliferando lontano dal sito originario di insorgenza e determinando il fenomeno della formazione di aree secondarie di crescita (metastasi). Le cellule maligne sono meno differenziate rispetto alle altre e le loro caratteristiche si modificano con il passare del tempo; mantengono tuttavia un numero sufficiente di caratteristiche del tessuto dal quale derivano. Le differenze morfologiche fra cellule normali e tumorali sono osservabili al microscopio: le cellule cancerose presentano un elevato rapporto tra nucleo e citoplasma, numerose mitosi e strutture relativamente poco specializzate.
Il confinamento di una cellula normale in un dato organo o tessuto viene mantenuto sia da barriere fisiche, sia dalle interazioni che si stabiliscono fra le cellule. La più importante barriera fisica che mantiene separati i tessuti è la lamina basale, localizzata sotto gli strati delle cellule epiteliali e delle cellule endoteliali dei vasi sanguigni. Le cellule metastatiche si aprono un varco attraverso la lamina basale. Nell’ambito delle interazioni cellulari, una fondamentale proprietà delle cellule maligne è quella di eludere la sorveglianza del sistema immunitario.
La caratteristica fondamentale delle cellule tumorali consiste nell’essere prive dei processi di controllo della crescita, uno degli aspetti più importanti della fisiologia animale. I 30.000 miliardi di cellule che compongono un organismo sano vivono in una comunità complessa e interdipendente, all’interno della quale controllano vicendevolmente la loro tendenza alla proliferazione. Le cellule normali si riproducono quando ricevono determinati segnali molecolari da altre cellule poste nelle vicinanze. Questa collaborazione fa sì che in ogni tessuto si mantenga uno stato di equilibrio, in modo che la sua struttura e le sue dimensioni siano appropriate ai bisogni dell’organismo. Le cellule tumorali derivano tutte da una cellula ancestrale comune (origine monoclonale del t.) che, anche molti anni prima che il t. diventi riconoscibile, ha avviato un programma di riproduzione incontrollata. Nella cinetica della crescita tumorale, alterata rispetto a quella del tessuto normale, si osserva una prima fase di crescita cellulare elevata, cui segue una graduale riduzione, associata all’aumento di cellule non proliferanti rispetto a quelle proliferanti. La percentuale di cellule in mitosi è un indice importante che può essere di grande significato clinico in fase sia di diagnosi, sia di elaborazione prognostica.
I t. maligni, come si è detto, hanno accrescimento rapido e infiltrano ampiamente gli organi in cui si sviluppano, alterandone e cancellandone la struttura. Essi si trasmettono a distanza per metastasi e provocano un decadimento generale che di per sé può essere causa di morte. La riproduzione per metastasi può avvenire con diverse modalità: per effetto della disseminazione delle cellule tumorali in una grande cavità sierosa (cavo pleurico o peritoneale) oppure, più frequentemente, per la loro penetrazione in canali preformati, principalmente vasi linfatici o capillari sanguigni; per motivi strutturali la via linfatica è seguita prevalentemente dai t. epiteliali, la via ematica dai t. delle due serie, l’epiteliale e la connettivale. Il decadimento generale causato dal t. è dovuto in parte al più o meno completo danneggiamento dell’organo colpito dalla primitiva proliferazione e di quelli coinvolti nella disseminazione metastatica, in parte all’immissione in circolo di sostanze tossiche elaborate dal t. e a un’azione spoliatrice esercitata dalla neoplasia con il suo accrescimento.
Il nome dei t. benigni il più delle volte fa riferimento al tessuto o all’organo di origine. L’adenoma è il t. derivante da epiteli ghiandolari; il fibroadenoma è quello nella cui struttura è rappresentato anche il tessuto connettivo; il mioma è il t. derivante da tessuto muscolare e, rispettivamente, il leiomioma e il rabdomioma sono i t. del tessuto muscolare liscio e di quello striato; fibroma, cheloide, lipoma, xantoma, mixoma, condroma, osteoma sono i t. dei singoli tipi di tessuto connettivo; angioma il t. di derivazione vascolare, rispettivamente emangioma o linfangioma se derivante da vasi sanguigni o linfatici; meningioma il t. delle meningi; neurinoma o neurofibroma il t. dei tronchi nervosi. Altre volte il nome si riferisce alla particolare conformazione del t.: verruca, condiloma, polipo e papilloma sono le denominazioni che assumono i t. degli epiteli di rivestimento. Infine, come altre malattie, alcuni t. possono essere indicati con il nome dello studioso che più ha contribuito alla loro conoscenza, come nel caso del t. ovarico, detto t. di Brenner.
I t. epiteliali maligni vengono denominati epiteliomi se derivano da epiteli di rivestimento, carcinomi e adenocarcinomi se invece si sviluppano da epiteli ghiandolari. Nel primo gruppo di epiteliomi si distinguono le varietà: a cellule squamose (o spinocellulari); a cellule basali (o basaliomi, o malpighiani con riferimento allo strato mucoso di Malpighi); a cellule indifferenziate; melanotici (o melanoepiteliomi o melanomi). Altre varietà relativamente comuni sono gli adamantinomi, i craniofaringiomi, gli epiteliomi delle vie urinarie e dell’apparato digerente, delle vie aeree, dell’utero e delle trombe di Falloppio, il corionepitelioma. Nel secondo gruppo la presenza o meno di una parvenza di struttura ghiandolare distingue gli adenocarcinomi dai carcinomi. Sedi più frequenti di adenocarcinomi sono la mammella, il rene, la prostata, lo stomaco, il collo e il corpo dell’utero, la tiroide.
I t. maligni dei connettivi e degli organi mesenchimali in genere sono detti sarcomi e precisamente: sarcomi di elevata malignità, se il grado di anaplasia è tale da non consentire il riconoscimento del tessuto di origine; sarcomi blastici nel caso contrario. I t. dei tessuti connettivi fibroso, adiposo, mucoso, cartilagineo e osseo sono detti, rispettivamente, fibrosarcoma, liposarcoma, mixosarcoma, condrosarcoma e osteosarcoma; i t. derivanti dagli osteoclasti sono denominati osteoclastomi, o anche sarcomi a cellule giganti o a mieloplassi; i sarcomi blastici dei vasi sono denominati endoteliomi e con maggior precisione emangioblastomi e linfangioendoteliomi, se derivano dall’endotelio vasale, periteliomi se riferiti all’avventizia e angiosarcomi se sono dovuti alla degenerazione maligna di un angioma. Mesotelioma è il nome del t. che deriva dalla proliferazione del rivestimento delle grandi cavità sierose, pleurica o peritoneale. Leiomiosarcoma e rabdomioma sono i t. blastici del tessuto muscolare liscio e di quello striato.
Le malattie neoplastiche del tessuto ematopoietico includono le leucemie, i linfomi (Hodgkin, non Hodgkin e Burkitt), e la micosi fungoide.
Fattori ambientali. L’interesse per la cancerogenicità degli agenti chimici è stato destato dalle osservazioni della particolare frequenza di malattie tumorali in soggetti esposti al ripetuto contatto con determinate sostanze, principalmente fuliggine, catrame, anilina, arsenico, berillio ecc., e da analoghe osservazioni di ordine epidemiologico. Dallo sviluppo degli studi su questi agenti è stata individuata una lunga serie di sostanze cancerogene, molto diverse tra loro da un punto di vista strutturale. Per quello che riguarda la capacità di indurre t., si possono distinguere due categorie: le sostanze ad azione diretta e quelle ad azione indiretta.
I cancerogeni ad azione diretta sono in minor numero e sono composti elettrofili che reagiscono con i gruppi carichi negativamente di altre molecole. I cancerogeni ad azione indiretta sono più numerosi e richiedono attivazione metabolica per poter esplicare la loro azione. I cancerogeni agiscono, cioè, come agenti mutageni. Cambiamenti nella sequenza del DNA possono avvenire per errori durante la sua duplicazione oppure, più frequentemente, per errori dei processi di riparazione che la cellula mette in atto per liberarsi del danno indotto dal cancerogeno. L’elenco più completo e aggiornato delle sostanze chimiche che possono essere associate a t. nell’uomo è contenuto nelle monografie pubblicate a partire dal 1972 a cura dell’Organizzazione mondiale della sanità. Le sostanze chimiche analizzate sono divise in 4 classi: sostanze con evidenze di cancerogenicità sufficiente, limitata, inadeguata e assente.
Tra i cancerogeni fisici si annoverano fattori meccanici, fattori termici, radiazioni ultraviolette e radiazioni ionizzanti. Sia le radiazioni ultraviolette sia le radiazioni ionizzanti provocano rotture a carico delle catene del DNA. La capacità di provocare il cancro nell’uomo è stata dimostrata dalla drammatica incidenza di leucemie fra coloro che sono sopravvissuti alle bombe atomiche sganciate durante la Seconda guerra mondiale.
Virus oncogeni. Numerosi virus sono causa di t. che compaiono naturalmente nella patologia di varie specie animali o sono in grado di produrre t. se inoculati in animali da esperimento. Nonostante i molti ostacoli che si incontrano nel riconoscimento di correlazioni tra t. e agenti eziologici, è stato stimato che almeno nel 15-20% dei casi di patologia neoplastica globale dell’uomo sono coinvolti virus. L’azione oncogena sembra essere una prerogativa dei virus a DNA. È stato dimostrato che alcuni virus a DNA causano trasformazione neoplastica perché il loro DNA si integra in prossimità di un protoncogene, alterandone la funzione.
Tra i virus a RNA sono state riconosciute proprietà oncogene ai retrovirus, che si replicano attraverso un intermediario replicativo di DNA. I retrovirus oncogeni causano sarcomi, leucemie acute e croniche negli uccelli, nel gatto, nel bue e nella scimmia e sono responsabili nell’uomo di alcune leucemie linfoidi a cellule T dell’adulto.
Fattori genetici. Il t. può essere considerato una malattia genetica delle cellule somatiche, in quanto gli eventi che portano le cellule normali alla trasformazione neoplastica esercitano i loro effetti su due classi di geni, i protoncogeni e i geni oncosoppressori o antioncogeni. Entrambi i tipi di geni svolgono funzioni cellulari correlate con la regolazione della divisione e del differenziamento cellulare: i protoncogeni favoriscono la crescita cellulare, mentre gli oncosoppressori la inibiscono.
Uno degli eventi critici che porta alla trasformazione neoplastica è la mutazione spontanea o indotta dagli agenti ambientali chimici o fisici. Le mutazioni possono far sì che il protoncogene produca una quantità eccessiva di proteina stimolatrice della crescita da esso specificata oppure una sua forma eccessivamente attiva. I geni oncosoppressori, invece, favoriscono l’insorgenza del t. quando sono inattivati da mutazioni. Le vie di stimolazione intracellulari ricevono ed elaborano i segnali trasmessi da altre cellule e tessuti: alcune cellule secernono fattori di crescita che si legano a recettori specifici sulla superficie delle cellule vicine. Quando un fattore di stimolazione della crescita si fissa a un recettore, esso segnala alle proteine del citoplasma di dare inizio al processo di proliferazione. La proliferazione di una cellula cessa di essere sottoposta a vincoli quando una mutazione di uno dei protoncogeni attiva una particolare via di stimolazione della crescita, mantenendola funzionante anche quando non dovrebbe. Gli eventi molecolari che portano all’attivazione degli oncogeni sono, oltre alla mutazione puntiforme, l’amplificazione genica, l’infezione virale e il riarrangiamento cromosomico. La mutazione causa il cambiamento di un aminoacido nella proteina codificata e questo evento può impedire l’interazione tra le varie proteine responsabili della regolazione del ciclo cellulare. L’attivazione di un oncogene attraverso l’amplificazione genica porta all’aumento di attività di un gene strutturalmente normale: in questo caso il protoncogene è presente in un gran numero di copie ripetute. L’attivazione di un oncogene in seguito a infezione virale avviene quando, a causa di processi di ricombinazione, promotori virali trascrivono in gran numero di copie i geni cellulari.
Infine diversi tipi di mutazioni cromosomiche sono responsabili dell’attivazione di un oncogene: il cromosoma Philadelphia, per es., deriva da una traslocazione tra i cromosomi 9 e 22 ed è il marcatore cromosomico della leucemia mieloide cronica. Affinché le cellule diventino neoplastiche non basta che sovrastimolino i loro meccanismi di induzione della crescita, ma devono anche fare in modo di eludere o ignorare i segnali di inibizione della crescita emessi dalle cellule normali vicine. I messaggi inibitori ricevuti da una cellula normale fluiscono verso il nucleo attraverso catene molecolari. Nelle cellule tumorali queste catene sono alterate e le cellule ignorano i segnali inibitori che giungono sulla loro superficie. Alcune componenti fondamentali di queste catene di inibizione sono codificate dagli oncosoppressori. Sebbene nella maggior parte dei t. umani siano state messe in evidenza mutazioni a carico dell’antioncogene p53, questo non significa che la perdita della proteina da esso codificata sia di per sé responsabile delle neoplasie. Le forme più frequenti di t. umano, come quelle del colon, del polmone o della mammella, sono infatti determinate da mutazioni multiple, che comportano sia l’inattivazione di geni oncosoppressori, sia la conversione di protoncogeni in oncogeni.
Il processo della cancerogenesi richiede dunque vari passaggi che danno come risultato finale un t. maligno invasivo e metastatizzante. Deve inoltre essere precisato che, in una cellula, l’acquisizione dei caratteri tumorali non è seguita obbligatoriamente dall’immediato sviluppo dell’attività proliferativa, perché il primo evento che determina l’induzione delle caratteristiche neoplastiche (iniziazione) e la moltiplicazione cellulare (promozione) costituiscono fasi diverse, condizionate da fattori di varia natura; alcuni agenti possono avere effetto iniziante, altri promuovente. È inoltre importante per la comprensione dei processi di cancerogenesi l’osservazione che i t. nell’uomo hanno un’origine monoclonale, cioè derivano da una sola cellula. In conclusione, le prove più significative che concorrono a dimostrare che la cancerogenesi è un processo a più stadi sono: l’evidenza epidemiologica che il cancro insorge prevalentemente in età tardiva e che il meccanismo della sua comparsa segue una cinetica complessa; il fenomeno di iniziazione-promozione; l’effetto sinergico di oncogeni (per es., myc e ras); l’origine monoclonale dei t.; l’eredità di un singolo gene, che predispone all’insorgenza di t. solo quando si verificano cambiamenti a carico di altri geni.
Per le diverse neoplasie sono stati proposti protocolli diagnostici volti a fornire la dimostrazione della presenza del t. seguendo criteri di costo-beneficio e di accuratezza diagnostica. Il primo punto dell’iter diagnostico è la dimostrazione citologica o istologica della neoplasia, cui segue la stadiazione della malattia. Questi due elementi sono fondamentali per porre basi terapeutiche razionali.
Le indagini strumentali (invasive e non) comprendono tecniche radiologiche, ecografiche, nucleari ecc. Benché l’introduzione della tomografia computerizzata e della risonanza magnetica nucleare rappresenti un notevole progresso nella diagnostica dei t., talune esplorazioni strumentali continuano a mantenere un ruolo di primaria importanza (per es., la radiografia standard del torace e del tratto digerente; la mammografia; la scintigrafia ossea ecc.). L’impiego di tecniche endoscopiche si rivela utile nella visualizzazione di lesioni tumorali a livello dei vari apparati e cavità (tubo digerente, albero bronchiale, cavità peritoneale e pleurica ecc.). La biopsia consente diagnosi citologica e istologica anche precoci. Le indagini citoistologiche rappresentano un elemento essenziale dell’iter diagnostico in quanto consentono di procedere al riconoscimento morfologico delle cellule tumorali anche avvalendosi di tecniche immunoistochimiche.
In immunodiagnostica dei t. lo studio delle molecole associate alla crescita neoplastica ha avuto un notevole impiego sia per definire precocemente la comparsa di cellule cancerose, sia per controllare nel tempo l’evoluzione metastatica. È nato in tal modo il concetto di marker tumorale, inteso come sostanza misurabile nel siero, la cui identificazione in concentrazioni anomale può essere predittiva di crescita neoplastica. L’ambito del marker tumorale si è poi ampliato fino a comprendere il complesso di molecole, come per es. gli antigeni di differenziazione cellulare, che comunque si possono correlare con la comparsa o l’estensione di una massa neoplastica. I marker tumorali sono tali molecole come altamente sensibili e specifiche, in grado cioè di risultare oggettivamente diverse da altre strutture non appartenenti al tumore. L’insieme dei marker noti è abbastanza lontano dal rispondere alle proprietà di molecole ideali; tuttavia un adeguato impiego degli stessi consente una buona definizione dell’estensione neoplastica e permette un significativo monitoraggio delle terapie adottate, soprattutto in funzione della diagnosi precoce delle recidive. Varie sostanze sono impiegate come marker (enzimi, antigeni oncofetali, ormoni). I più noti sono gli antigeni oncofetali, proteine espresse normalmente nella fase di sviluppo tessutale ma che non compaiono nelle fasi di differenziazione dell’adulto.
La terapia dei t. è diretta a eliminare la proliferazione neoplastica e a prevenirne le recidive, locali o a distanza. Nella maggioranza dei casi, si mira allo scopo con trattamenti chirurgici, radianti e farmacologici. A seconda delle caratteristiche istologiche, della localizzazione e dell’eventuale grado di diffusione della proliferazione neoplastica, questi differenti mezzi terapeutici sono impiegati isolatamente o associati in un programma opportunamente articolato o integrato.
Terapia chirurgica. Per quanto riguarda la terapia chirurgica, nei t. benigni la semplice ablazione della neoformazione (tumorectomia) e dei tessuti contigui offre sufficienti garanzie di guarigione definitiva; il rischio di recidive in loco sussiste solo in pochi casi come, per es., per alcuni t. encefalici che, a dispetto della loro benignità oncologica, sono infiltranti e nei quali non si può procedere a un’ampia demolizione dei tessuti circostanti. Nei t. maligni diagnosticati piuttosto precocemente il più delle volte si ricorre al trattamento chirurgico, che comprende l’asportazione del t., quella dei tessuti contigui nei quali si può ipotizzare una possibile, iniziale infiltrazione e quella dei linfonodi satelliti, anche se apparentemente indenni. In chirurgia e microchirurgia oncologica si ricorre frequentemente all’impiego del laser, soprattutto quando si temono possibili disseminazioni metastatiche o si interviene su tessuti facilmente sanguinanti.
Terapia radiante. La terapia radiante, inizialmente basata sull’impiego dei generatori di raggi X, del radio e di altri materiali radioattivi naturali, per lungo tempo ha avuto come campo d’azione specifico solo alcuni t., come gli epiteliomi superficiali, i t. del tessuto emolinfopoietico e il seminoma del testicolo; per il resto il suo impiego era complementare dell’intervento chirurgico. L’efficacia della radioterapia è nettamente migliorata grazie ai progressi della fisica nucleare, delle conoscenze di radiologia e delle più efficaci misure di radioprotezione.
Terapia farmacologica. La terapia farmacologica si avvale di numerosi prodotti, variamente somministrabili. Di più largo impiego sono le varie classi di chemioterapici antitumorali e, in secondo luogo, ormoni, loro derivati e antiormoni. Di uso più recente sono i preparati rivolti all’immunoterapia e, nel caso di alcuni t. difficilmente accessibili per via chirurgica, l’inoculazione ricorrente di semplice alcol etilico nell’intimo della massa neoplastica mediante lungo ago, sotto guida ecografica (alcolizzazione transcutanea). I chemioterapici sono per lo più somministrati secondo schemi di dosaggio, di associazione contemporanea o sequenziale (polichemioterapia) e di durata, in base a protocolli concordati, e sono scelti in base alle caratteristiche istologiche e al tipo di cinetica cellulare della neoplasia, allo scopo di agire sulle cellule tumorali nel momento della loro massima sensibilità. Una forma di chemioterapia antiblastica del tutto particolare è la fototerapia dinamica (o terapia fotodinamica), basata sulla somministrazione di una sostanza fotosensibilizzante (di solito un fluorocromo, come l’ematoporfirina o un suo derivato) che poi viene attivata mediante laser o altra fonte di radiazioni luminose con lunghezza d’onda penetrante. La terapia con ormoni, loro derivati o antiormoni si applica ai t. di quegli organi nei quali sviluppo e funzione sono controllati da specifici ormoni e a condizione che tale dipendenza persista nelle cellule tumorali. Si attua per lo più dopo aver eliminato chirurgicamente (ovariectomia negli adenocarcinomi della mammella, orchiectomia in quelli prostatici) l’organo che secerne l’ormone condizionante (endocrinoterapia passiva), o somministrando ormoni antagonisti (endocrinoterapia attiva), oppure bloccando i recettori ormonali presenti nelle cellule tumorali. I risultati migliori si sono ottenuti nel carcinoma della prostata, che è stato il primo di cui sia stata dimostrata l’ormonodipendenza.
Immunoterapia. L’immunoterapia dei t. mira a potenziare la scarsa capacità del sistema immunitario di fronteggiare l’espansione neoplastica. La strategia di intervento consiste nell’utilizzare metodi di stimolo (immunoterapia attiva) o nell’impiego di molecole anticorpali capaci di esercitare un effetto citotossico o in grado di veicolare molecole ad azione farmacologica capaci di svolgere un ruolo antitumorale (immunoterapia passiva). L’immunoterapia attiva viene distinta in non specifica e specifica. L’approccio non specifico si basa sull’impiego di sostanze che, inoculate nel portatore di neoplasia, sono in grado di stimolare soprattutto la componente macrofagica. L’immunoterapia passiva, originariamente fondata sull’impiego di antisieri, si è arricchita di prospettive mediante l’uso di anticorpi monoclonali. Gli anticorpi monoclonali sono stati proposti come vettori di molecole citotossiche (per es., chemioterapici) o come agenti direttamente in grado di causare la lisi delle cellule tumorali mediata dall’azione del complemento.
Un’altra promettente via di approccio terapeutico si basa sull’uso di molecole capaci di inibire la crescita tumorale mediante lo stimolo di risposte biologiche dell’organismo colpito dalla neoplasia. Le sostanze considerate comprendono prodotti batterici, estratti timici e linfochine interferone, che vengono complessivamente inclusi nel gruppo dei BRM (biological responder modifiers). Si tratta di molecole tra loro diverse, che esplicano una funzione genericamente definita modulante e che possono risultare efficaci in particolari condizioni di crescita tumorale.
Terapia del dolore. Uno dei sintomi più gravi per il paziente affetto da t. è il dolore, che per alcune neoplasie interviene precocemente e per altre si manifesta soprattutto nelle fasi terminali. Per contrastare questa sintomatologia, vengono impiegate terapie farmacologiche e non, che nel loro insieme prendono il nome di terapia del dolore. L’Organizzazione mondiale della sanità ha elaborato una scala sequenziale di impiego di sostanze che, nata per il trattamento del dolore neoplastico, è stata poi applicata anche ad altre tipologie di dolore. Se la terapia farmacologica si rivela inefficace, può essere integrata con l’impiego di tecniche invasive o seminvasive che consentono di portare i farmaci, sia analgesici locali sia oppioidi, a contatto con le radici spinali (analgesia epidurale) o con il sistema nervoso centrale (tecniche subaracnoidee spinali o intraventricolari centrali), modulando l’entrata degli impulsi dolorosi (neuromodulazione spinale). Esistono poi tecniche neurolesive in grado di interrompere la trasmissione dello stimolo doloroso attraverso l’impiego di sostanze neurotossiche (alcol o fenolo) portate a diretto contatto con il tessuto nervoso o con i gangli simpatici e i plessi parasimpatici.