Diritto di voto In linea di massima, per diritto di v. si intende il diritto di partecipare a votazioni di tipo pubblicistico, siano esse di tipo deliberativo o elettivo (Elezioni). Tra questi due tipi di votazioni il secondo è senza dubbio il più importante. Il v. è il diritto politico per eccellenza (Diritti costituzionali) ed è strettamente legato alle nozione di democrazia, di sovranità popolare e di cittadinanza. Da un punto di vista storico, si tratta di un legame relativamente recente, che tuttavia costituisce ora un dato di fatto irreversibile nell’ambito degli ordinamenti democratici, proclamato in tutte le più importanti Costituzioni novecentesche (art. 17 e 22 Cost. Germania 1919; artt. 3, 4 e 6 Cost. Francia 1946; art. 48 Cost.; art. 38 Legge fondamentale Germania 1949; artt. 3 e 6 Cost. Francia 1958; artt. 23, 68 e 69 Cost. Spagna 1978; artt. 136 e 149 Cost. Svizzera 1999): il suffragio universale, ovvero il diritto a partecipare alle elezioni conferito a tutti cittadini maggiorenni, uomini e donne, è, infatti, una conquista del XX secolo e segna il fondamentale passaggio dallo Stato liberale alla moderna democrazia costituzionale (Forme di Stato e forme di governo). Si deve tenere presente, infatti, che il riconoscimento del diritto di v. alle donne costituisce una conquista successiva ed ulteriore rispetto all’affermazione del suffragio universale maschile: mentre il riconoscimento del primo si colloca, da un punto di vista cronologico, tra il 1848 e il primo dopoguerra (cfr. artt. 24 e 25 Cost. Francia 1848; art. 20 Cost. Germania 1871), il secondo viene generalmente attribuito nel periodo di tempo tra il primo e il secondo dopoguerra e, in Italia, solo nel secondo dopoguerra, nel 1946 (Assemblea costituente).
Il v. esisteva anche nell’antichità e nel medioevo, anche se si svolgeva con modalità diverse rispetto a quelle che siamo soliti considerare: solo con l’affermazione del costituzionalismo moderno e del principio di uguaglianza viene accolta l’idea del v. come diritto individuale («un uomo, un voto»), laddove nelle epoche precedenti il v. si ricollegava all’appartenenza a un gruppo (si pensi ai comitia curiata o ai comitiva centuriata dell’antica Roma o all’appartenenza agli ordini negli Stati generali di antico regime). Questo non significa, però, che le carte costituzionali del XVIII e XIX secolo avessero accolto il principio del suffragio universale (maschile): l’unica eccezione, in questo senso, è rappresentata dalla Costituzione francese del 1793, che identificava esplicitamente l’universalità dei cittadini maschi e il popolo sovrano, conferendogli immediatamente il diritto di eleggere i deputati, di deliberare sulle leggi e di votare gli elettori degli arbitri pubblici, degli amministratori e dei giudici criminali e di Cassazione (artt. 7 ss.). Non si può parlare, invece, di suffragio universale maschile a proposito degli U.S.A., dal momento che, fino all’abolizione formale della schiavitù e alla conseguente approvazione del XIII (1865), del XIV (1868) e del XV emendamento (1870), una parte rilevante della popolazione (gli afroamericani) era totalmente esclusa dal godimento non solo dei diritti politici, ma anche dei diritti civili (Diritti costituzionali). Inoltre, nella legislazione di molti Stati membri, l’iscrizione nelle liste elettorali era subordinata al pagamento di una tassa (c.d. poll tax), cosa che escludeva di fatto dal v. i non abbienti.
Del pari, in Europa le legislazioni elettorali si sono per lungo tempo ispirate al principio del suffragio ristretto, stabilendo dei requisiti di reddito (suffragio censitario) o di cultura (suffragio capacitario) o combinandoli tra loro. Da un punto di vista teorico, la limitazione del suffragio si ricollegava all’idea del v. non come diritto, ma come funzione, esercitata nell’esclusivo interesse della nazione o dello Stato: in quanto tale, esso poteva essere conferito non a tutti i cittadini, ma solo a coloro che fossero nelle condizioni di poterlo proficuamente esercitare, godendo di determinati requisiti soggettivi di censo e/o di cultura.
Il diritto di v. in Italia. - Per quanto riguarda l’esperienza italiana, sino alla proclamazione del Regno d’Italia la legislazione sarda (Regio editto n. 680/1848; R.d. n. 3778/1859), estesa al nuovo Stato (l. n. 4385/1860), prevedeva un suffragio particolarmente ristretto (circa il 2 per cento della popolazione), che combinava alti requisiti di censo e di capacità, oltre al requisito di saper leggere e scrivere. Un primo allargamento del suffragio è stato operato con la l. n. 593/1882, che ha abbassato l’età minima da venticinque a ventuno anni ed ha ridotto significativamente i requisiti di censo a favore di quelli di capacità (l’aver compiuto con buon esito il corso elementare obbligatorio), portando il rapporto tra elettori e popolazione al 7 per cento. Un più cospicuo allargamento del corpo elettorale (fino a circa il 23 per cento) si è avuto con la l. n. 665/1912, che ha introdotto il c.d. suffragio quasi universale maschile: a seguito di questa legge, sono stati ammessi al v. tutti i cittadini maschi di età superiore ai ventuno anni che avessero superato con buon esito l’esame di scuola elementare e tutti i cittadini di età superiore ai trenta anni indipendentemente dal loro grado di istruzione.
Il suffragio universale maschile vero e proprio è stato introdotto con la l. n. 1985/1918, che ha ammesso al v. tutti cittadini maschi di età superiore ai ventuno anni, nonché i cittadini di età superiore ai diciotto anni che avessero prestato il servizio militare durante la Prima Guerra mondiale. Il v. alla donne è stato riconosciuto, invece, con il d.lgs.lgt. n. 23/1945.
La Costituzione repubblicana detta all’art. 48 Cost. alcuni principi fondamentali in materia di v., stabilendo che esso è personale, uguale, libero e segreto e che il suo esercizio è un «dovere civico». Questa disposizione va interpretata nel senso che la Costituzione proibisce il v. per procura (cioè la possibilità che un individuo deleghi a un altro il suo esercizio) e il v. plurimo (cioè la possibilità che il v. di un soggetto, per i suoi requisiti soggettivi, possa avere una valore numerico superiore a quello di un altro) e che è nullo ogni patto con cui un elettore si obbliga a votare in un certo modo. Del pari, la dottrina è divisa – anche in ragione dell’ambiguità del testo costituzionale – circa il significato della doverosità del v., ritenendosi però, alla luce anche dell’evoluzione normativa in tal senso, che tale dovere costituisca una mera espressione del vincolo politico di appartenenza al popolo, come dimostra l’assenza di sanzioni nel caso della sua violazione.
Promessa libera, o deliberata, fatta a Dio di un bene possibile o migliore, da parte di chi ha un adeguato uso di ragione. Il v. può essere soggetto all’istituto canonistico della dispensa e impegna solo ed esclusivamente il soggetto che lo ha emesso, il quale, ai sensi del can. 1191, lo deve anche adempiere, per volere di religione. Più in particolare, si parla di v. pubblico se viene accettato dai superiori della Chiesa e da esso riconosciuto; di v. solenne, se è riconosciuto dalla Chiesa, di v. personale, se ha a oggetto un’azione del promettente; di v. reale, se ha a oggetto una cosa specifica; di v. misto, se unisce le caratteristiche del v. personale e del v. reale.
Promessa formulata solennemente, per la quale un individuo, o un gruppo, s’impegna, davanti alla divinità, a compiere una determinata azione. Due sono i tipi fondamentali del v.: quello dell’impegno condizionato e quello incondizionato. Il primo è più caratteristico delle religioni di tipo arcaico, il secondo di quelle universalistiche.
Il v. condizionato consiste in una promessa fatta dal soggetto religioso alla divinità nel caso che questa esaudisca un suo desiderio. V. di questo genere erano in uso anche nell’antico ebraismo e nell’antica Grecia; ma è nel pensiero giuridico degli antichi Romani che il v. appare nelle più precise forme strutturali. I Romani, infatti, anche mediante una terminologia ben definita, distinguevano i singoli atti in cui si articola il v.: votum concipere o suscipere è la decisione che si manifesta nella nuncupatio («dichiarazione») voti; dopo questa, se la condizione cui il v. era legato si verifica, il soggetto religioso deve votum reddere o solvere, altrimenti egli è voti reus o damnatus. Un altro tipo di v. è senza un’esplicita contropartita, anche se nella maggior parte dei casi questa è sottintesa ed è la salvezza. Il v. può essere privato o pubblico. La religione romana conosce anche v. pubblici periodici che impegnano lo Stato nel caso che il successivo lustro, decennio o ventennio trascorra in prosperità e senza disastri. Nella religione imperiale spesso cittadini privati, oltre che funzionari dello Stato, facevano v. pro salute imperatoris o Augusti. Questo tipo arcaico di v. spesso si associa, e anche si fonde, con altri fenomeni religiosi, quale, per es., il giuramento. Gli arconti greci facevano v. di statue d’oro per il caso che trasgredissero le leggi; anche nell’antica Cina si sanzionava un patto con un v. scritto con il sangue rappreso della vittima sacrificata per l’occasione. Un altro caso specifico di v. è quello che gli antichi Romani offrivano agli dei del nemico nel caso che essi abbandonassero i loro protetti per passare al fianco dei Romani, che, in tal caso, avrebbero dedicato loro tempio e culto (evocatio).
Nel concetto cattolico il v. è una promessa liberamente fatta a Dio di dare o fare qualcosa: promessa che si deve mantenere, appunto perché fatta con libero assenso e non per timore o pressione altrui, sotto pena di peccato. Materia del v. deve essere una cosa possibile all’uomo secondo le sue forze fisiche e morali; una cosa buona in sé, altrimenti non è gradita a Dio. L’obbligazione derivante dal v. può cessare con lo spirare del tempo stabilito; o quando la materia promessa si muta sostanzialmente diventando, a motivo di nuove circostanze intervenute, inutile, peccaminosa, impossibile; o quando viene meno la condizione da cui il v. dipende; o quando l’autorità che ha il potere interviene per dispensare o commutare il voto. Emergono su tutti gli altri nella Chiesa i tre v. di povertà, castità e obbedienza, che uniti vengono emessi nella professione religiosa. I v. di astinenza alimentare e sessuale erano in uso nell’antico ebraismo; nel cristianesimo il primo esempio di v. di castità è documentato da s. Paolo.
I v. dei buddhisti (di rifugiarsi in Buddha, Dharma e Sangha) e quelli dei giainisti hanno precedenti anche nei vrata del bramanesimo.