S. dentario Tessuto che ricopre la corona del dente come un cappuccio; negli organismi superiori, è il tessuto più duro e più mineralizzato. Deriva dagli ameloblasti dell’organo dello s., formazione che, come abbozzo epiteliale, si sviluppa dal margine libero della lamina dentaria dell’embrione e in un secondo tempo accoglie come in una campana la papilla del dente. È costituito da formazioni allungate (prismi dello s.) che si estendono dalla superficie esterna alla dentina, tenute insieme da una sostanza cementante; sia i prismi sia la sostanza interprismatica, sono formati di cristalli di idrossiapatite e, per il 3%, di materiale organico. La superficie esterna dello s. è ricoperta, solo all’epoca dell’eruzione del dente, da una cuticola (membrana dello s. o membrana adamantina).
Lo s. variegato (o fluorosi dentaria) è un’alterazione dentaria dovuta all’assorbimento di alti quantitativi di fluoro e caratterizzata da macchie e striature, dal bianco latteo al bruno.
Colori, metalli e pellicce usati per colorare o rivestire sia il campo dello scudo sia le figure e le pezze poste su di esso. Il nome deriva dall’antico uso di porre sui sorcotti dei cavalieri medievali le figure dello stemma fatte con stagno battuto e smaltato di colori diversi.
I colori principali sono 5: il rosso, il verde, l’azzurro, il nero e il porpora (quest’ultimo usato raramente); i secondari sono il naturale, che rappresenta il colore proprio di una figura (per es. di una pianta, di un fiore, di un frutto) e il carnagione usato per il corpo umano. Rarissimi e presenti per lo più nell’araldica inglese sono: l’aranciato, il cannellato, il sanguigno; il ferro e il bruno si trovano in qualche arma tedesca.
I metalli sono l’oro e l’argento resi, il primo con il dorato o il giallo, il secondo con l’argentato o il bianco.
Le pellicce (o foderature) sono l’ermellino e il vaio; l’ermellino è reso con l’argento picchiettato da piccoli ciuffetti neri (che rappresentano la pelliccia bianca dell’animale e la coda maculata); il vaio con l’argento e l’azzurro (combinazione alternata del dorso grigio e del ventre bianco dello scoiattolo). L’uso delle pellicce sugli stemmi italiani è abbastanza raro, più frequente nelle armi francesi, inglesi, tedesche. Il colore è un elemento essenziale dello stemma; nel Medioevo era uno dei segni di riconoscimento degli eserciti sui campi di battaglia e dei cavalieri nei tornei e nelle giostre cavalleresche. È indispensabile, inoltre, per distinguere le partizioni di uno scudo (➔ partizione).
Una delle principali regole dell’araldica impedisce la sovrapposizione degli s., cioè di colore su colore e metallo su metallo (non si applica per il colore naturale e il carnagione); nel caso in cui questa regola non venga rispettata le figure o le pezze si definiscono cucite e le armi sono definite d’inchiesta, in quanto andrebbe individuato il motivo di questa eccezione (per es. l’insegna del regno di Gerusalemme è d’argento, alla croce potenziata d’oro accantonata da quattro crocette dello stesso).
La scelta del colore può essere determinata da motivi diversi: dal gusto, dalla fantasia o dal significato simbolico che gli araldisti hanno attribuito loro nei secoli, per cui l’oro rappresenta ricchezza, generosità, forza, nobiltà, splendore, gloria; l’argento è simbolo di amicizia, concordia, purezza, clemenza; il rosso significa audacia, valore, spargimento di sangue; l’azzurro è gloria e virtù; il verde è vittoria, onore, cortesia, vigore e abbondanza; il porpora è dignità regia, verecondia, temperanza. L’ermellino e il vaio indicano invece dignità di costumi, dominio e autorità. La diversa combinazione dei colori fra loro e la posizione che occupano sullo scudo può modificare il loro significato; uno scudo partito (cioè diviso da una linea verticale in due parti uguali) d’oro e di rosso, per es., simboleggia giurisdizione, giustizia e nobiltà magnanima, ma partito d’oro e d’azzurro vuole indicare nobiltà perfetta, pregio di virtù e splendore del merito.
La scelta del colore può essere condizionata anche da ragioni politiche, di appartenenza a un clan o a fazioni. Sugli stemmi delle città comunali, infatti, il cambiamento politico si manifestava attraverso l’inversione dei colori; sugli stemmi di porte e contrade (soprattutto nelle città toscane e lombarde), veniva usato il bianco per rappresentare il popolo, il rosso per i nobili; sugli stemmi di città ghibelline veniva raffigurata la croce d’argento in campo rosso mentre su quelli di città guelfe la croce rossa su campo argento (➔ araldica).
Nell’ambito della loro interpretazione simbolica gli s. furono associati dagli araldisti del 15° e 16° sec. ai pianeti e alle pietre preziose: l’oro veniva associato al sole e al topazio, l’argento alla luna e alla perla, il rosso a Marte e al rubino, l’azzurro a Giove e allo zaffiro, il nero a Saturno e al diamante, il verde a Venere e allo smeraldo, la porpora a Mercurio e all’ametista, ma anche ai nomi delle virtù teologali e cardinali o, come fecero i francesi, a vocaboli di origine orientale (il verde diventa sinople, il nero diventa sable).
Per rappresentare graficamente gli s. di stemmi non colorati (per es. di stemmi incisi o scolpiti) vennero usati sistemi diversi come la sostituzione con le loro iniziali tratte dall’alfabeto latino: per es. A (aurum) = oro, a (argentum) = argento, C (ceruleum) = azzurro; o dall’alfabeto italiano: per es. O = oro, A = argento; o con numeri arabi (l’1 corrispondeva all’oro, il 2 all’argento, il 3 al rosso ecc.). Dal 17° sec. è prevalso il sistema grafico del tratteggio inventato da M. Vulson de la Colombière nel 1600 e diffuso dal gesuita italiano Silvestro di Pietrasanta nel suo trattato Tesserae gentilitiae, pubblicato a Roma nel 1638; in base a questo sistema l’oro è indicato da un insieme di puntini, l’argento da uno spazio lasciato in bianco, il rosso da linee verticali, l’azzurro da linee orizzontali, il verde da linee diagonali moventi da sinistra a destra, il porpora da linee diagonali moventi da destra a sinistra, il nero dall’incrocio di linee verticali e orizzontali, il naturale da linee diagonali ondulate da sinistra a destra, il colore di carnagione da un fondo bianco ricoperto da piccole ‘c’.
La decorazione a s. consiste nell’applicazione di polvere di vetro, colorato con ossidi di metallo, su un fondo metallico al quale aderisce grazie al calore, per un processo di fusione. Nell’antichità e nel Medioevo i due principali processi impiegati furono il cloisonné (➔) e lo champlevé (➔); in seguito furono usati anche lo s. traslucido (che consiste nello stendere un sottile strato di pasta vitrea su una superficie incisa o scolpita a bassorilievo per ottenere suggestivi effetti di trasparenza) e lo s. dipinto (la diretta applicazione della polvere di vetro, sciolta in liquidi collosi, con il pennello sulla superficie metallica o su una preparazione di s. bianco).
L’uso dello s. come ornamento di gioielli era noto già agli Assiri e agli Egizi, che lo incastonavano a freddo con mastice; esemplari di s. caldo, verdi e blu, sono invece attestati dal 6° sec. a.C. in Grecia, da dove si diffusero in Asia Minore. Ripreso dai Romani, lo s. trovò larga applicazione specialmente in Gallia e Britannia (diffuso anche dai Celti che lo praticavano già dal 5° sec. a.C.). Lo s. cloisonné acquistò grande importanza con l’oreficeria bizantina, che probabilmente ne apprese la tecnica dalla Persia; la produzione più intensa si ebbe tra il 10° e l’inizio del 13° sec. (straordinari esempi nel tesoro di S. Marco a Venezia).
In Occidente l’arte dello s. era sopravvissuta in Gallia durante il periodo merovingio in forma di champlevé, generalmente rosso, usato per decorare fibule; oreficerie con s. si sono rinvenute in Scozia e Irlanda. Durante l’epoca carolingia è evidente l’influsso bizantino (altare di Vuolvinio in S. Ambrogio a Milano, 824-859 ca.) che si protrarrà anche nei secoli successivi (coperta d’evangelario di Ariberto da Intimiano, 1018-54, Milano, Tesoro del duomo). In epoca ottoniana sono attive officine nella parte occidentale dell’impero, lungo il Reno e in Lorena; Treviri raggiunge una posizione dominante al tempo dell’arcivescovo Egberto (977-993). La più importante collezione di s. cloisonné dell’epoca si conserva nel tesoro del duomo di Essen (croce della badessa Matilde, 998-1002). Lo champlevé ebbe un’epoca di splendore dalla seconda metà del 12° sec. con tre grandi scuole: quella mosana, quella renana e quella di Limoges. Gli s. mosani si distinguono per il contrasto tra l’intensa policromia e il fondo d’oro (altare portatile di Stavelot, 1165 ca., Bruxelles, Musées royaux des beaux-arts). La scuola renana si caratterizza per il contrasto azzurro-oro (croce e candelieri, 12° sec., Milano, Museo Poldi-Pezzoli). La scuola di Limoges, inizialmente legata a esperienze mosane, assunse poi uno stile decisamente romanico; da una produzione inizialmente monastica passò a officine laiche, e assunse un carattere industriale dando inizio a una vasta esportazione (coperta di manoscritto con Cristo in maestà, ultimo quarto del 12° sec., Parigi, Musée de Cluny).
Nel corso del 14° sec. si diffuse in tutta Europa (i maggiori centri di produzione furono Italia, Francia settentrionale e Renania) l’uso dello s. a rilievo traslucido, che continuò anche nel secolo successivo (Guccio di Manaia, calice di Nicolò IV, 1290, Assisi, Tesoro di S. Francesco; Ugolino di Vieri, reliquiario del Sacro corporale, 1337-38, Orvieto, duomo; Nicola da Guardiagrele, croce astile, 1434, L’Aquila, cattedrale, ecc.). Al traslucido su bassorilievo si affianca la parziale applicazione di s. nel tutto tondo, secondo un procedimento utilizzato dagli orafi fino a tutto il Seicento e oltre (B. Cellini, saliera d’oro di Francesco I, 1540-43, Vienna, Kunsthistorisches Museum). Verso la metà del Quattrocento, forse dalle Fiandre, si diffuse in tutta Europa lo s. dipinto su rame, prima in Francia (J. Fouquet, medaglioni dipinti, Louvre) poi in Italia (pace con Pietà, 15° sec., Firenze, Museo nazionale). Il centro di maggiore produzione fu Limoges che per tutto il 16° sec. realizzò altari portatili, placche, paci ecc., prima rifacendosi a modelli desunti dalle miniature e dalla pittura tedesca e fiamminga, poi ispirandosi alla pittura italiana.
Nel 17° e 18° sec., e anche in seguito, lo s. ebbe applicazione in funzione di supporto coloristico della gioielleria e della miniatura.
Gli s. sono sostanze vetrose che fondono a temperatura relativamente bassa, costituite da miscele di silicati alcalini, alcalino-terrosi, di piombo ecc., di borati silico-alcalini, e talora di fluoborati, ottenute per fusione di una miscela di vari componenti (che durante la cottura reagiscono tra loro), quali feldspati, borace, quarzo, ossido di piombo, nitrato e carbonato di sodio, fluoruro di calcio, criolite, fluorosilicato sodico, insieme ad alcuni ossidi destinati a esplicare un’azione colorante od opacizzante.
Il termine s. viene peraltro in genere usato per indicare il rivestimento vetroso applicato a materiali metallici, specialmente ferrosi, o non metallici, quali vetro o ceramica. Lo s. può essere opaco, bianco o variamente colorato e ha la funzione di rendere l’oggetto che riveste impermeabile ai liquidi e ai gas; di accrescere la resistenza alle sostanze aggressive; di fornire una superficie dura e facilmente pulibile; di conferire proprietà estetiche e protettive per l’eventuale decorazione.
Gli s. per ceramica hanno composizione variabile e trovano impiego nel rivestimento di apparecchi idraulico-sanitari in porcellana, terraglia e gres; isolatori elettrici in porcellana; piatti, vasi, oggetti decorativi in porcellana, terraglia e maiolica.
Anche gli s. per metalli hanno diversi tipi di composizione e possono essere suddivisi in s. per acciai, per ghisa, per alluminio e per metalli non ferrosi e nobili.
La smaltatura è l’operazione di rivestimento superficiale a caldo con s. di oggetti metallici e ceramici, a scopo protettivo, impermeabilizzante o decorativo. Nella smaltatura di oggetti di ghisa, lamiera, rame ecc., per evitare reazioni fra lo s. e il metallo si applica sulla superficie metallica ben pulita dapprima uno s. di fondo, particolarmente ricco di silice, detto controssido, che in genere dà un rivestimento poroso perché la cottura viene effettuata a una temperatura tale da provocare soltanto l’incipiente fusione del rivestimento; sulla superficie così ottenuta si applica in seguito il vero s., riscaldandolo poi in forni a muffola fino a fusione.