(arabo ‛Arab) In senso stretto gli abitanti musulmani dell’Arabia, comunemente tutti gli individui di lingua araba, cioè gli abitanti dell’Arabia, della Siria, del Libano, della Giordania e dell’Iraq. A. sono detti anche gli abitanti dell’Africa settentrionale e di buona parte del Sudan settentrionale, sebbene in queste regioni siano parlate anche molte altre lingue. Sono incluse fra gli A. anche le minoranze cristiane (Siria, Libano, Palestina), ma non quelle ebraiche, anche se di lingua araba. Comunità minori di A. si trovano sparse in molte zone dell’Africa nera, particolarmente lungo le coste orientali, nel Madagascar, e nell’Asia meridionale fino all’Indonesia.
Gli A. come nazione entrano nella storia nei primi decenni del 7° sec. con Maometto, fondatore di una religione universalistica, l’islamismo, le cui sorti in un primo tempo si identificano però con la nazione araba (per le vicende precedenti ➔ Arabia). Gli A. riescono in un primo momento a superare il particolarismo tribale e poco dopo la morte di Maometto (632) iniziano rapidissime conquiste: in pochi decenni l’Impero persiano è distrutto, il bizantino mutilato di Palestina, Siria, Egitto; la marea araba dilaga verso Occidente per tutta la costa dell’Africa settentrionale e dopo il 711 in Spagna, fino a quando la loro avanzata viene fermata dai Franchi di Carlo Martello a Poitiers (732). Contemporaneamente gli A. si affacciano a E alle steppe dell’Asia Centrale, a N oltre il Caucaso, e investono sia pur invano Costantinopoli. All’interno, sotto i primi successori di Maometto (califfi) e, superata una crisi politico-religiosa, sotto la dinastia califfale degli Omayyadi di Damasco (661-750), si forma uno Stato musulmano che cerca di adattare i precetti della legge rivelata alla sua prodigiosa espansione: gli A. ne sono l’elemento dominante, forniscono i quadri militari, politici e amministrativi. Tuttavia, quando nel 750 gli Omayyadi sono travolti dall’insurrezione degli Abbasidi, sostenuta da elementi soprattutto iranici neoconvertiti all’islam, la supremazia politica araba volge rapidamente alla fine.
Il nuovo califfato abbaside (750-1258) muta il carattere dello Stato islamico da impero nazionale a monarchia soprannazionale. Prima Iranici, poi Turchi si affiancano e soppiantano gli A. come classe dirigente; mentre la cultura accoglie l’eredità del mondo antico e domina nella nuova forma sincretistica tutta la vita dell’Oriente medievale. L’unità territoriale del califfato abbaside di Baghdad si sfalda dopo poche generazioni e con il 10° sec. la sua autorità si restringe al solo Iraq.
Tra gli Stati arabi sorti dallo sfaldamento dell’Impero emergono quello degli Omayyadi di Spagna (755-1012) e quello africano dei Fatimidi (10°-12° sec.) prima nel Nordafrica, poi in Egitto. Nelle altre regioni dell’originaria diaspora araba l’elemento etnico arabo si mescola con il berbero nell’Africa del Nord, con il curdo e turco in Siria e Iraq, e cede totalmente nella Persia alla rinascita politica e culturale iranica. Religione, lingua e cultura mantengono però un’impronta araba anche in Stati etnicamente o dinasticamente non arabi, quali gli Imperi nordafricani degli Almoravidi e degli Almohadi (11°-13° sec.) e quello siro-egiziano degli Ayyubiti (12°-13° sec.), i più tenaci avversari delle crociate. Il definitivo regresso politico e culturale dell’arabismo si ha dopo l’invasione mongola del 13° sec., che spazza via l’ultimo resto del califfato di Baghdad (1258) e sanziona l’avvento al potere di elementi non arabi, soprattutto turchi, negli Stati del Vicino Oriente (come i Mamelucchi d’Egitto). Questo processo culmina agli inizi del 16° sec., con la conquista ottomana di tutti i paesi ancora abitati da A., a esclusione del Marocco. I secoli dal 16° al 18° segnano la massima decadenza materiale e spirituale del mondo arabo.
La penetrazione europea che scalza il dominio ottomano e mette gli A. a contatto con il pensiero e la tecnica occidentale portano indirettamente alla rinascita del mondo arabo. La spedizione napoleonica in Egitto e la susseguente opera di Moḥammed ‛Alī risvegliano per primo questo paese, che seguito dalla Siria si mette ben presto all’avanguardia del risorgimento culturale e civile dell’arabismo. Tra il 19° sec. e gli inizi del 20°, mentre alla sovranità ottomana subentra l’occupazione europea (la Francia in Algeria, 1830, in Tunisia, 1881 e poi nel Marocco, 1912; l’Italia in Libia, 1911; l’Inghilterra in Egitto, 1882), tale processo prosegue, stimolato dal confronto con la cultura europea e dalla riscoperta di un grande passato, fino a giungere a maturazione con la Prima guerra mondiale, la rivolta araba contro i Turchi e il loro schierarsi al fianco dell’Intesa. La dissoluzione dell’Impero ottomano dà luogo a una serie di Stati arabi, che sono però sottoposti a regime di mandato (Siria e Libano sotto la Francia, 1920; Palestina, Transgiordania, Iraq sotto la Gran Bretagna, 1921). Nel ventennio tra le due guerre mondiali, mentre l’Egitto comincia a liberarsi dalla tutela inglese (1922) e nella penisola arabica si impianta lo Stato wahhabita saudiano (1925), si assiste al progressivo affrancamento dei territori arabi da questa autorità internazionale, con l’eccezione della Palestina, le cui prospettive di indipendenza sono complicate dall’immigrazione ebraica durante il trentennio di amministrazione britannica (1918-48). Nel corso della Seconda guerra mondiale alcuni movimenti nazionalistici sono repressi, ma la vittoria degli Alleati significa per gli Stati arabi la fine del regime di mandato e il riconoscimento della piena indipendenza (1945); essi entrano a far parte dell’ONU e danno vita a una Arabi Lega Araba (➔), la cui azione si rivela subito determinante nel caso della Libia, riconosciuta Stato unitario e indipendente nel 1951. Nei due decenni successivi conquistano l’indipendenza il Marocco (1956), la Tunisia (1956) e l’Algeria nel 1962 nell’Africa settentrionale; l’Oman (1951), il Kuwait (1961), il Bahrain, il Qatar e gli Emirati Arabi Uniti (1971) nella penisola arabica, dove lo Yemen del Sud, indipendente dal 1967, si sarebbe unito nel 1990 allo Yemen del Nord dando vita alla Repubblica dello Yemen. Sul finire degli anni 1960, dunque, tutti gli A. hanno raggiunto l’indipendenza, con le rilevanti eccezioni rappresentate dalla Palestina e dal Sahara Occidentale (colonia spagnola prima, poi annessa dal Marocco).
Esiste tra la popolazione dei vari Stati arabi un forte senso di appartenenza alla umma ‛arabiyya, ossia alla «nazione araba ideale», una nazione che unisce tutta la popolazione araba. Le spinte unificatrici, ispirate all’ideale panarabo, si scontrano tuttavia con l’emergere di notevoli differenze tra i diversi Stati: sul piano economico la concentrazione delle risorse petrolifere nei paesi del Golfo Persico; su quello politico la coesistenza di monarchie assolute (nei paesi del Golfo), monarchie costituzionali (come in Giordania e in Marocco) e regimi repubblicani più o meno autoritari. Anche la politica nei confronti di Israele è motivo di tensioni e spaccature: alla tradizionale contrapposizione tra uno schieramento più radicale e uno più moderato, riprodottasi, con protagonisti in parte diversi, lungo tutto l’arco del conflitto arabo-israeliano, si sovrappone, alla fine degli anni 1970, la profonda rottura determinata nel fronte arabo dalla pace separata fra Egitto e Israele (1979). La sospensione dalla Lega Araba dell’Egitto (fino al 1989), cioè del paese che, con Nasser, aveva assunto un ruolo guida nel mondo arabo, rappresenta per quest’ultimo un grave fattore di indebolimento. Ulteriori fratture sono causate dal conflitto fra Iraq e Iran (1980-88), nel corso del quale la Siria si schiera con Teheran e le monarchie del Golfo Persico forniscono aiuti economici e militari a Baghdad. La nascita nel 1981 del Consiglio di cooperazione del Golfo, fra le sei monarchie della regione (Arabia Saudita, Bahrain, Emirati Arabi Uniti, Oman, Qatar e Kuwait), e la formazione nel 1989 dell’Unione del Maghreb arabo (Libia, Tunisia, Algeria, Marocco e Mauritania), confermano la tendenza verso forme di più stretta cooperazione a livello regionale, pur permanendo fattori di contrasto fra gli Stati. Il rilancio della causa palestinese presso la Lega Araba (rafforzata nel 1989 dal rientro dell’Egitto), innescato dalla rivolta popolare esplosa nel 1987 in Cisgiordania e a Gaza (intifaḍa), è ostacolato dalla crisi del Golfo, scoppiata nell’agosto 1990 in seguito all’invasione irachena del Kuwait. L’incapacità della Lega Araba di concordare una soluzione negoziata del conflitto porta alla frattura dell’organizzazione e alla partecipazione di Stati arabi come l’Egitto, la Siria e l’Arabia Saudita alla guerra contro l’Iraq (gennaio-febbraio 1991) nell’ambito di una forza multinazionale guidata dagli Stati Uniti. Nella seconda metà degli anni 1990 il mondo arabo sembra attraversare un periodo di maggiore intesa, ma l’irrisolta questione palestinese, che riesplode drammaticamente dal 2000 con la seconda intifaḍa, continua a suscitare preoccupazioni fra gli Stati arabi, molti dei quali vedono crescere al loro interno movimen;ti e gruppi d’ispirazione fondamentalista (manifestatisi già sul finire degli anni 1980). Questi agiscono come fattori di profonda instabilità politica e sociale, scegliendo la linea di azioni militari e terroristiche sul piano sia locale sia internazionale, con un’ulteriore intensificazione delle azioni dopo l’intervento militare anglo-americano in Iraq (2003).
L’arabo è una lingua semitica del gruppo meridionale e si suddivide a sua volta in settentrionale e meridionale. Quest’ultimo fu scritto e parlato nello Yemen da almeno il 1° millennio a.C. sino all’epoca islamica ed è ora estinto, salvo qualche traccia nei dialetti sudarabici di Mahra e Socotra. L’arabo settentrionale, la cui più antica testimonianza epigrafica è del 4° sec. d.C. (stele di Nemāra), ha avuto forma letteraria con la poesia preislamica e con il Corano, e attraverso questo è diventato la lingua della civiltà islamica medievale nella sua fase di espansione, dalla Spagna alla Persia, dal Caucaso al Sudan. Poi questa vastissima area si è ristretta, con l’affermarsi di altre lingue nazionali, quali il neopersiano e il turco, che peraltro hanno attinto dall’arabo un largo patrimonio lessicale. La lingua usata dagli A., che era, nonostante venature dialettali, abbastanza unitaria, si scisse presto in una forma scritta, sostanzialmente rimasta immutata sino a oggi, e in parlate locali derivate. Queste si continuano negli attuali dialetti (il marocchino, l’algerino ecc., influenzati dalle lingue sia berbere sia occidentali) da cui la lingua classica è oggi ovunque soppiantata nell’uso corrente. Nelle sue varietà, l’arabo è parlato da circa 150 milioni di individui.
L’alfabeto arabo consta di 28 lettere: 25 consonanti e 3 semivocali, oltre a 3 segni diacritici vocalici, non sempre indicati; il lessico è prevalentemente Arabi triconsonantico (➔); la morfologia presenta un articolo determinativo invariabile, una declinazione con 3 casi (nominativo, genitivo, accusativo), 2 generi (maschile, femminile) e 3 numeri (sing., plur., duale).
La scrittura araba, derivata dalla nabatea, e orientata da destra a sinistra, appare usata fin dai primi secoli dell’egira (notevoli le varietà calligrafiche del cufico, in papiri e iscrizioni antiche, e più tardi del naskhī). Persiani, Turchi e altri popoli del mondo musulmano hanno adottato e mantengono tuttora, o solo di recente hanno abbandonato, la scrittura araba, adattata alle rispettive lingue.
La più antica manifestazione della letteratura araba è la poesia preislamica, pervenuta in raccolte e antologie del 2°-3° sec. dell’egira (8°-10° sec. d.C.), con interpolazioni e falsificazioni, ma con un fondo d’indiscutibile autenticità; i più antichi documenti risalgono al principio del 6° sec. d.C., e la sua fioritura dura tutto quel secolo e i primi decenni del seguente, sino all’affermarsi dell’islam. È una poesia già fortemente stilizzata, con temi e forme convenzionali, in una lingua unitaria, con una metrica quantitativa rigorosa. Motivi dominanti sono la vita nomade del deserto, l’amore, la descrizione della natura entro schemi fissi, l’elogio encomiastico o il rimpianto elegiaco di virtù beduine, la satira e polemica fra tribù. Difficile distinguere tra i poeti fisionomie individuali: emergono nella tradizione e nell’arte il re-poeta Imru’ ul-Qais, il poeta cortigiano Nābigha, il sentenzioso Zuhair, il bandito Shanfara, altri autori del gruppo delle Mu‛allaqāt o grandi odi del deserto, considerate fra gli esiti più alti di questa poesia più antica. Esteticamente i suoi maggiori valori si colgono solo in frammenti.
A questa tradizione poetica nazionale si contrappone, ma in parte anche si affianca, la rivelazione di Maometto (m. 632), la più antica opera prosastica unitaria della letteratura araba. Il Arabi Corano (➔), composto nella stessa lingua inter-tribale della poesia, e in una prosa rimata che si accosta a quella degli antichi vaticini sacri, tenta di esprimere un nuovo mondo religioso concettuale e morale. I suoi capitoli più antichi (sure) rendono con efficacia l’urgenza dell’ispirazione; le parti narrative, come nelle storie di Profeti, tradiscono inesperienza e rozzezza, ma rivelano spesso anche efficacia espositiva, mentre scialbe appaiono invece quelle normative, giuridiche, parenetiche. Nonostante il suo diseguale valore letterario, il prestigio e l’influsso del Libro Sacro sulla successiva evoluzione della letteratura furono enormi sul piano linguistico e stilistico, di pensiero e contenuto. Ne risentì meno la poesia, che continuò a svilupparsi secondo le forme già divenute canoniche all’apparire della nuova fede; essa resta quasi l’unica produzione letteraria dell’epoca omayyade (7°-8° sec.), dove però accanto all’ode (qaṣīda) tradizionale, in cui eccelle la triade al-Akhṭal, Giarīr, Farazdaq, si afferma la poesia d’amore galante (Omar ibn Abī Rabī‛a) o sentimentale (Giamīl).
Sul finire dell’epoca omayyade, e più nei primordi di quella abbaside (8°-9° sec.), ha inizio un rinnovamento di forme e temi, in corrispondenza del passaggio dal tipo di società beduina a quella sedentaria, urbana e raffinata, con forti influssi iranici. Corifeo della nuova poesia, bacchica e parnassiana, è il geniale Abū Nuwās (m. 813 ca.); questo indirizzo è poi arrestato e sopraffatto da un irrigidimento neoclassico, fatale per gli sviluppi della lirica araba medievale, il cui campione è al-Mutanabbī (10° sec.). Il frammentismo e alessandrinismo dei ‘moderni’, più che nell’Iraq dove in origine fiorì, trovò poi espressione nella poesia araba di Spagna, anche in originali forme strofiche (muwashshaḥa e zagial), che secondo moderne teorie possono aver influito sulle origini della lirica romanza. A eccezione di questi sviluppi periferici e l’opera originale di qualche solitario (come il poeta-filosofo di Siria Abū’l-‛Alā’al-Ma‛arrī, m. 1058), la poesia araba classica si esaurisce nel più vieto tradizionalismo, sino ai tentativi di rinnovamento dell’età ;moderna.
L’epoca abbaside, dall’8° sec. al 13°, vede il pieno dispiegarsi della letteratura araba (e dell’arabo si servono ormai autori della più disparata origine etnica, come nell’età imperiale romana del latino; nel 10° sec. nasce anche la letteratura cristiana in lingua araba), con una notevole produzione di opere soprattutto in Egitto e in Siria, che da un lato sviluppa e sistema la tradizione nazionale (poesia e prosa d’arte, grammatica, lessicografia, tradizionistica storico-letteraria, giuridica e religiosa), dall’altro comincia a coltivare nuovi campi attingendo da culture straniere. Tra i rappresentanti del primo indirizzo si distinguono il saggista al-Giāḥiẓ, i narratori e pubblicisti at-Tawḥīdī e at-Tanūkhī, il ‘virtuoso’ autore delle Maqāmāt al-Ḥarīrī. D’altra parte il contatto con la scienza e la filosofia greche, iniziato nell’8° sec. attraverso traduzioni dal siriaco e dal greco stesso, dà impulso alla speculazione e all’indagine sperimentale: fiorisce così in lingua araba la filosofia. Dal 13° sec. si assiste a un ristagno della cultura che verrà attenuandosi a partire dalla seconda metà del 19° sec. grazie all’apporto di Siria ed Egitto.
Gli avvenimenti politici del mondo arabo hanno segnato così profondamente la società mediorientale da incidere in modo determinante sul corso della letteratura araba contemporanea. Lo scrittore prende coscienza del suo ruolo e sceglie di descrivere la realtà con romanzi e racconti di stampo sociale e realistico, come testimonia la prima produzione degli egiziani Maḥmūd Taymūr (1894-1973) e Nagīb Maḥfū´ẓ (1911-2006). La libertà, la lotta, il progresso sociale sono i temi dominanti della folta schiera di scrittori riunitisi negli anni 1950 intorno alla rivista al-Ādāb («Le lettere», 1953): la letteratura si volge essenzialmente verso l’impegno sociale e politico. Il romanzo e la novella, due generi letterari importati dall’Occidente, sono ormai largamente sperimentati dalla letteratura araba e assumono una forma propria in una felice sintesi di tradizione e modernità. La nascita di riviste letterarie e la pubblicazione di narrativa sulle pagine di vari quotidiani contribuiscono a una diffusione più capillare della letteratura e in particolare del racconto breve. Questo genere letterario, già in voga all’inizio del 20° sec., si afferma con maggior vigore intorno agli anni 1960: la struttura della qiṣṣa qaṣīra («racconto breve, novella») è infatti la più appropriata a definire sia le diverse realtà che lo scrittore descrive, sia il proprio modo di percepire il mondo. La novella è il genere praticato da scrittori di tendenza realistica, quali l’egiziano Y. Idrīs (Āḫir al-dunya, «Alla fine del mondo», 1961), i siriani Ḥ. Mīnah, S. Ḥūrāniyya, F. Zarzūr, il libanese S. Idrīs, i palestinesi Giabrā Ibrāhīm Giabrā e Ġ. Kanafānī, ma si piega anche ai modi di gusto simbolista e modernista di I. al-Ḫarrāṭ in Egitto, di F. al-Takarlī in Iraq, di Z. Tāmir in Siria. Il romanzo, che nel corso degli anni avverte l’influenza di varie tendenze, diventa romanzo storico, romanzo psicologico, romanzo impegnato e romanzo di denuncia. Lo scrittore sperimenta allora tecniche nuove, come il monologo interiore, il flusso di coscienza (al-Ḫarrāṭ: Ya banāt Iskandariyya, «Le ragazze di Alessandria», 1990), il flashback (la siriana Ġ. Sammān: Kawābis Bayrūt, «Incubi di Beirut», 1976) e nei dialoghi utilizza la lingua parlata (al-Takarlī: al-Raǧa‛al-ba‛īd, «L’eco lontana», 1980), che meglio esprime le contraddizioni della vita collettiva e individuale. Benché molta produzione letteraria araba sia strettamente legata alle vicende politiche, non mancano esempi di una letteratura non ideologica né militante, come nel caso della libanese H. Barakāt, autrice dei romanzi Ahl al-hawā («Malati d’amore», 1993) e Ḥāriṯ al-miyāh («L’aratura delle acque», 1998, premio Maḥfū´ẓ 2000), storie di esistenze su uno sfondo di devastazioni. Dopo l’assegnazione nel 1988 del premio Nobel per la letteratura a Maḥfūẓ, il mercato europeo si è improvvisamente aperto alla letteratura araba pubblicando anche prove del tutto secondarie legate ai luoghi comuni di un Oriente retrogrado, sanguinario e fondamentalista. Tuttavia, sono numerosi gli scrittori che, pur testimoniando la propria appartenenza al mondo arabo, sfuggono a ogni dimensione esclusivamente locale. L’irachena ‛Ā. Mamdūḥ, che dal 1990 si è trasferita a Parigi, è autrice del romanzo Habbat nafṭalīn («Naftalina», 1986), in cui dipinge la realtà che la circonda. In Egitto, accanto al già citato al-Ḫarrāṭ, emergono Ṣ. Ibrāhīm, autore tra l’altro del romanzo al-Laǧna («La commissione», 1981), dolorosa denuncia delle contraddizioni in cui si dibatte la classe intellettuale araba, B. Ṭāhir (Ḫalatī Sāfiya wa ’l-dayr, «Zia Safia e il monastero», 1991), e Ǧ. al-Ġiṭānī, autore di raffinati romanzi popolati di personaggi attinti da un passato antico. In Siria emergono Mīnah, autodefinitosi «scrittore del mare e del realismo socialista» e divenuto noto nel mondo arabo con il romanzo al-Širā‛wa ’l-āṣifa (1965, «La vela e la tempesta»), e ‛A. Munīf (n. 1933), giordano di nascita, naturalizzato iracheno che, dopo un periodo di esilio in Francia, vive in Siria. Munīf nei suoi romanzi sottolinea la mancanza di democrazia e la continua violazione dei diritti umani. Almeno due gli scrittori libanesi da ricordare: R. Da‛īf, autore del poetico romanzo ‛Azīzī, al-sayyid Kawabata, muḫtārāt («Mio caro Kawabata», 1995), e Z. Ḫālid, che ha offerto con Yawm al-ǧum‛a yawm al-aḥad («Venerdì, Domenica», 1984) un delicato affresco di Tripoli. Significativo è stato il contributo degli scrittori palestinesi: oltre ai già citati Kanafānī, uno dei primi esponenti della ‘letteratura di resistenza, e Giabrā Ibrāhīm Giabrā, portavoce della letteratura palestinese dell’esilio, si ricordano il poeta M. Darwīsh, tra le figure più rappresentative insieme a S. al-Qāsim e I. Ḥabībī.
Accanto alla narrativa, anche la poesia sperimenta nuove forme e infrange i rigidi schemi della poesia classica, la qaṣīda, per affermare la supremazia del verso libero. Sulla scia degli iracheni B.Š. al-Sayyāb e N. al-Malā’ika, autrice del saggio Qaḍāya al-ši‛r al-mu‛āṣir («Problematiche della poesia contemporanea», 1962), nel quale sottolinea che il cambiamento della forma interessa anche il contenuto, si delinea una nuova tendenza poetica definita modernista. Portavoce di tale poetica è stata la rivista libanese Ši‛r («Poesia»). Fondata nel 1957 da Adonis e da Y. al-Ḫāl, la rivista ha affrontato numerose problematiche, tra cui l’annosa questione della diglossia tra arabo classico e arabo dialettale, privilegiando quest’ultimo rispetto alla lingua colta, in quanto il linguaggio poetico non costituisce un mezzo di comunicazione ma di creazione e pertanto le parole devono ispirare, piuttosto che esprimere semplicemente concetti. La flessibilità delle forme poetiche ha permesso l’emergere di un nuovo genere letterario, la prosa poetica o poema in prosa (al-ši‛r al-manṯūr, oppure al-naṯr al-ši‛rī), che deriva i suoi effetti ritmici da alcune tecniche quali il parallelismo, la ripetizione, l’assonanza e l’allitterazione. Tra gli iniziatori di questa nuova tendenza si segnalano il palestinese T. al-Ṣāyiġ e il libanese U. al-Hāǧ, avverso alle convenzioni e ai sistemi prosodici della poesia classica, come sottolinea nell’introduzione del suo poema in prosa Lan («Mai», 1960). Questa dinamicità linguistica e formale, in cui si riflette una nuova percezione del mondo, ha permesso l’assunzione di elementi mitologici e di archetipi derivati da un vasto retroterra culturale (divinità greche, babilonesi e dell’Egitto faraonico), attraverso i quali il poeta, si pensi, per es., ad Adonis, può sottrarsi a quella condizione psicologica di esclusione cui lo costringono le regole di una società repressiva. Ma tale visione non è condivisa dall’intera schiera di poeti modernisti, come nel caso dell’egiziano Ṣ. ‛Abd al-Ṣabūr, che confessa la propria vulnerabilità e quella del mondo intorno a lui, utilizzando un linguaggio scarno, prossimo all’arabo della prosa, e lontano da qualsiasi classicismo.
Si suole denominare filosofia araba quella che sarebbe più esatto chiamare filosofia musulmana, ma che è composta per la quasi totalità da opere scritte in arabo. Le origini della meditazione filosofica nella civiltà islamica si pongono tra la fine dell’8° sec. e gli inizi del 9°, quando l’islam entrò in contatto con la filosofia greca attraverso traduzioni, o direttamente dal greco o, più spesso, da precedenti versioni sire. Rimasti poco più che semplici nomi i presocratici, Platone e Aristotele furono entrambi conosciuti nell’islam (il secondo assai più largamente del primo), sia in parte nell’opera originale sia in sommari, elaborazioni e sintesi tarde, soprattutto di età e indirizzo neoplatonico. Il problema maggiore che si pose alla speculazione filosofica musulmana fu quello di conciliare l’eredità greca con la rivelazione dell’islam.
La prima personalità di filosofo a noi nota di cultura islamica è quella di al-Kindī (m. dopo l’870), il ‘filosofo degli A., il cui pensiero si nutrì di prodotti del neoplatonismo, come la cosiddetta Teologia d’Aristotele, in realtà una scelta di estratti dalle Enneadi plotiniane. Al-Kindī accolse l’emanatismo plotiniano, combinandolo con il dogma della creazione ex nihilo del mondo. Personalità più originale è quella del grande medico e filosofo persiano ar-Rāzī (il Rhazes dei Latini, m. circa 923), il solo che abbia fatto valere esigenze di pura razionalità non conciliate, anzi radicalmente contrapposte alla rivelazione islamica e a ogni altra religione rivelata: il suo pensiero può dirsi una forma di platonismo largamente neoplatonizzante. Con il terzo maggior filosofo pre-avicenniano, al-Fārā´bī (m. 950), rientriamo nella linea maestra della speculazione islamica, oscillante tra i due poli del pensiero filosofico e della verità religiosa. Al-Fārā´bī subordinò questa a quello, sostenendone però la reciproca conciliabilità. La parte più originale del suo pensiero appare oggi l’interesse per le teorie politiche di Platone, e lo sforzo di inserirle nel corpo della società musulmana: come Platone per la polis greca, egli cercò per la polis islamica il miglior reggitore, individuato nel Califfo-filosofo.
Con Avicenna (m. 1037) l’aristotelismo, sia pur contaminato di neoplatonismo, trovò nella filosofia islamica la sua prima grande sistemazione. L’avicenniana enciclopedia filosofica ash-Shifā’, divenuta un classico per le posteriori generazioni anche in Occidente, si attiene di massima al pensiero aristotelico, ma temperandolo, per conciliarlo con la teologia speculativa musulmana, con elementi tratti dall’interpretazione aristotelica di Alessandro di Afrodisia e da neoplatonici come Simplicio. Queste deviazioni dalla pura dottrina peripatetica furono rimproverate ad Avicenna dall’ultimo grande pensatore islamico, lo spagnolo Averroè (Ibn Rushd, m. 1198), che da un lato si sforzò di aderire più sistematicamente e fedelmente al pensiero dello Stagirita, dall’altro s’impegnò in vivace polemica con al-Ghazzālī (m. 1111) per difendere la validità stessa della speculazione filosofica, da questo attaccata come contraria alla fede. La risposta di Averroè, ossia il Destructio destructionis contro il Destructio philosophorum di al-Ghazzālī, ebbe un forte influsso sullo sviluppo della Scolastica e se in alcuni punti fu confutata da s. Tommaso, fornì per altri versi allo stesso Aquinate argomenti dialettici. Riguardo al rapporto tra verità razionale e rivelazione, Averroè asserì, per es., la loro piena conciliabilità: ragione e fede non si oppongono, convergendo per strade diverse e con diversi mezzi a un unico fine.
Il pensiero filosofico islamico, che andò esaurendosi dopo il 12° sec. (salvo un’originale rifioritura del neoplatonismo mistico in Persia sino ancora nel Seicento), fu noto per le numerose traduzioni latine all’Occidente cristiano, cui trasmise problemi comuni, stimolandone l’ulteriore elaborazione, e assolvendo una funzione non limitata alla semplice e parziale trasmissione del pensiero greco.
La mancanza di monumenti musicali propriamente detti (non risulta che gli A. abbiano praticato una notazione) limita le nostre conoscenze della musica araba entro la sola cerchia della teoria illustrata nei trattati dei sec. 8°-15°. Teorici principali furono: Khalīl (8° sec.), al-Kindī (9° sec.), al-Fārā´bī (10°), Avicenna (11°), Ṣafī ad-dīn (13°), Abd el-Qāder (15°). Dai loro scritti si apprende che prima del 9° sec. la serie dei suoni comprendeva 40 gradi, dei quali era praticamente usata soltanto una piccola parte; a tale serie si sostituì, specialmente con le dottrine ellenizzanti di al-Fārā´bī, un sistema di 12 gradi, per poi giungere nel 13° sec. a 17 gradi posti a intervalli di circa 1/3 di tono. Le melodie erano basate sui maqām che, analogamente ai modi gregoriani, erano usati a seconda dell’argomento, del genere, del rito, dell’affetto delle diverse occasioni per fornire lo spunto, il carattere e lo stile di pezzi composti al momento. Nelle melodie mancava la contrapposizione, tipica della musica europea, tra consonanza e dissonanza, dovendosi piuttosto distinguere tra i diversi gradi di consonanza. La ritmica, come quella greca, era formata per aggregazione a partire da una unità minima (simile al piede greco).
La grande fioritura che la musica araba conobbe con la prima dinastia degli Abbasidi a partire dalla metà dell’8° sec. fu legata soprattutto alla scuola degli ‛Udisti, così detta per il ruolo fondamentale svolto dallo ‛ud (liuto). Dopo il 10° sec. fu la scuola dei Sistematici a dare un decisivo apporto all’evoluzione musicale araba, anche attraverso una nuova teoria della scala. Con il 16° sec. l’arte musicale trovò spazio soprattutto in una corrente mistica, che valorizzò le potenzialità psicagogiche, magiche e terapeutiche della musica.
La rinascita culturale che caratterizzò il mondo arabo a partire dal 19° sec. interessò anche la musica. Dopo il Primo congresso di musica araba, tenutosi al Cairo nel 1932, si sono moltiplicate le iniziative volte, da un lato, alla conservazione del patrimonio storico e, dall’altro, ai possibili sviluppi dell’arte musicale in una società in evoluzione.
L’unità sopranazionale e l’apporto delle tradizioni locali sono gli elementi caratterizzanti della musica araba odierna. Le scale oggi praticate sono generalmente eptafoniche, con intervalli però non tutti rigorosamente determinati. La ritmica preferisce formazioni di 8 elementi (2+2+2+2, oppure 2+3+3). Gli strumenti sembra che abbiano aumentato la loro varietà: accanto al citato ‛ud, capostipite della famiglia dei liuti, vanno ricordati il rabāb (ribecca) e il kemange, entrambi strumenti a corde sfregate; l’arghul (‘piffero’ a canna doppia), il nāy (flauto obliquo), la ghayta (ciaramella) tra gli strumenti a fiato; il duff o tār (tamburello), i qarāqeb (crotali), il benidīr (grande tamburo piatto), tra le percussioni.
Oggetto di rinnovata attenzione nel corso degli ultimi decenni del Novecento, sono anche le tradizioni berbera e beduina. Già a partire dal congresso del 1932 e per tutto il secolo, l’Egitto, ‘cuscinetto’ culturale tra Vicino Oriente e Africa settentrionale, ha svolto un ruolo centrale nella promozione della musica araba, tanto nel campo classico quanto in quello dei nuovi generi urbani, che hanno ricevuto un impulso notevole a partire dagli anni 1970, grazie all’introduzione delle musicassette. I mezzi di riproduzione, infatti, consentono potenzialmente a chiunque di produrre musica fuori dai grandi circuiti industriali, dando voce al malcontento degli strati popolari e spazio alla cultura giovanile degli anni 1980. Anche nei generi urbani sviluppati negli ultimi decenni del Novecento, come il raï algerino o lo ša’b (gente) e ǧīl (generazione) egiziani, sono peraltro reperibili i tratti caratteristici della tradizione musicale araba.