spettroscopio Strumento in grado di produrre, misurare e registrare uno spettro di assorbimento o di emissione. Per estensione, il nome di s. veniva dato anche a dispositivi per l’analisi spettrale di suoni (s. acustico) o di segnali elettrici (s. elettrico), per i quali è tuttavia più propria la denominazione di analizzatore armonico (➔ analizzatore).
Gli s. che trovano applicazione in campo astronomico spaziano da quelli interferometrici (basati sul fatto che le figure di interferenza dipendono dalla lunghezza d’onda della radiazione) a quelli a eterodina (basati sulla rivelazione dei battimenti ottenuti combinando la radiazione da analizzare con la radiazione monocromatica di una sorgente locale) e, in base allo spettro da studiare, sono impiegati nel fuoco di telescopi a terra o a bordo di aerei, di palloni stratosferici, di razzi e di satelliti.
Lo s. a prisma è quello più antico; s. di questo tipo sono usati diffusamente nel visibile ma possono estendersi anche all’infrarosso con un’accurata scelta del materiale per realizzare il prisma (NaCl, KBr e CsI). La risoluzione spettrale, cioè il rapporto tra la frequenza centrale di osservazione e l’ampiezza di banda, in frequenza, con cui si campiona lo spettro, è dell’ordine di 102-103. Una soluzione per gli s. interferometrici, che ha permesso di estendere la banda di osservazione, è quella del filtro interferenziale. Questo trova applicazione dalla regione visibile fino al lontano infrarosso. S. con filtri di questo tipo, con i quali si raggiunge una risoluzione pari a circa 103, hanno permesso di rivelare alcuni tipi di molecole policicliche aromatiche presenti nel mezzo interstellare. Utilizzando s. con reticoli diffrattivi si raggiunge una risoluzione più spinta, fino a 105. Questo è il caso dello s. per l’ultravioletto che ha volato con il satellite IUE (international ultraviolet explorer) e che aveva una risoluzione pari a 12.000 a 200 nm di lunghezza d’onda. Il vantaggio di utilizzare il reticolo, sia come dispersore sia come specchio collimatore, ha fatto sì che gli s. con reticolo trovassero la loro maggiore applicazione alle lunghezze d’onda corte, come appunto l’ultravioletto e i raggi X. La risoluzione degli s. a reticolo è limitata, nel caso di osservatori a terra, dal seeing atmosferico e dal diametro massimo del telescopio. Anche la dimensione della sorgente celeste pone un limite alla risoluzione spettrale; questo problema si supera mediante l’impiego di sezionatori d’immagine: fasci di fibre ottiche che concentrano, entro la fenditura d’ingresso dello s., l’energia della sorgente diversamente distribuita sul piano focale.
Quando si ha interesse a produrre simultaneamente gli spettri di molte galassie o quasar, con l’intento di stimare il loro redshift, si ricorre a s. a grande campo. In alcuni casi si usano fasci di fibre ottiche, opportunamente posizionate nel piano focale del telescopio in corrispondenza delle immagini delle sorgenti da analizzare, che si comportano come nel caso dei sezionatori d’immagine. In altri casi si ricorre all’uso di camere CCD e di prismi evitando di dover conoscere a priori la posizione degli oggetti in studio; s. di questo tipo sono montati nel fuoco del telescopio da 3,6 metri dell’ESO a Mauna Kea (Hawaii). Un tipo di s. finalizzato, per lo studio monocromatico del Sole, è lo spettroeliografo (➔).
Largamente utilizzati, nelle osservazioni astronomiche del visibile fino a lunghezze d’onda millimetriche, sono gli s. interferometrici basati sulla trasformata di Fourier (tipo Michelson) e quelli di Fabry e Perot (➔ interferometria). La risoluzione spettrale si spinge da 104 a 106. Un risultato che mostrò già nel 1968 l’efficienza di s. di questo tipo, fu lo spettro nel vicino infrarosso dell’atmosfera di Venere ottenuto con potere risolutivo pari a 50.000. Tra i molti s. astronomici a trasformata di Fourier bisogna ricordare lo s. FIRAS (far infrared absolute spectrophotometer), che fa parte della strumentazione di bordo del satellite astronomico COBE (cosmic background explorer). Questo strumento ha identificato lo spettro della radiazione di fondo cosmico, come un perfetto spettro di corpo nero a 2,735 K entro 1 parte su 10.000. La radiazione raccolta è stata analizzata tra 100 μm e 1 cm di lunghezza d’onda, con una moderata risoluzione spettrale (circa 100), con un interferometro a polarizzatori e dei rivelatori bolometrici raffreddati a 1,6 K. Questo s. si basa sul confronto simultaneo tra il segnale del cielo e l’emissione di una sorgente di riferimento nota a diverse lunghezze d’onda, esplorate tramite il movimento relativo di specchi. Data la compattezza e l’alta risoluzione spettrale raggiungibile, anche gli s. del tipo di Fabry e Perot trovano largo impiego in esperimenti spaziali.
Gli s. sono classificati in vari modi: in funzione del tipo di radiazione (spettrofotometri, che operano con radiazione elettromagnetica dal lontano infrarosso al vicino ultravioletto; colorimetri, che operano solo nel visibile ecc.); in funzione del tipo di sorgente (s. a fiamma, s. laser ecc.); in funzione della natura del campione (s. ad assorbimento atomico) ecc. La classificazione più generale riguarda il modo di operare con la distinzione tra s. a emissione e s. ad assorbimento. Parametri caratteristici che permettono di valutare la qualità di uno s. sono la luminosità, cioè il massimo angolo solido sotto cui la radiazione incidente può essere raccolta; la trasmittanza spettrale, funzione della trasparenza degli elementi ottici che determinano il cammino della radiazione; il potere risolutivo R=λ/Δλ, che indica la minima separazione in lunghezza d’onda (Δλ) tra due righe spettrali che lo strumento permette di riconoscere come distinte. Quest’ultimo parametro è particolarmente importante perché da esso dipende la possibilità di risolvere o meno, nello spettro, picchi di assorbimento o di emissione molto vicini.
Le caratteristiche degli s. differiscono a seconda della radiazione utilizzata, del tipo di campione, del rivelatore e del registratore dei segnali impiegati dallo strumento. Malgrado ciò è possibile individuare alcuni elementi comuni a tutti gli apparecchi. Gli s. ad assorbimento sono sostanzialmente costituiti da una sorgente della radiazione, da un sistema atto a collimare e indirizzare la radiazione lungo il cammino desiderato, da una cella portacampioni, da un sistema di rivelazione e amplificazione del segnale e da un registratore. Negli apparecchi tradizionali, che si avvalgono di sorgenti policromatiche, a monte o a valle della cella del campione vi è un sistema (detto anche monocromatore) di dispersione della radiazione. Gli s. a emissione differiscono dai precedenti soprattutto per il fatto che la sorgente è il campione stesso che viene opportunamente eccitato (per via elettrica, termica ecc.).
S. ad assorbimento. In uno strumento classico che lavora in assorbimento, la sorgente emette radiazioni; un sistema di filtri, lenti e fenditure seleziona, focalizza e allinea tali radiazioni che vengono successivamente disperse dal monocromatore. La radiazione resa monocromatica viene poi inviata sul campione e la parte non assorbita giunge sul rivelatore che esegue la misurazione.
Nella fig. 1 è illustrato il funzionamento di un semplice s. che lavora nel visibile (colorimetro). Le radiazioni emesse dalla lampada a filamento di tungsteno a passano attraverso una fenditura b e vengono convogliate da uno specchio c su un monocromatore a reticolo d che disperde le radiazioni sotto angoli diversi in funzione della lunghezza d’onda. Un secondo specchio e indirizza la radiazione monocromatica sul campione f. Dopo essere emersa dal campione, la radiazione trasmessa viene convertita in un segnale elettrico dalla fotocellula g che funge da rivelatore; il segnale, eventualmente amplificato, viene registrato dall’indicatore h. Questo strumento è del tipo monoraggio, cioè è caratterizzato da un singolo raggio incidente, cosicché, per ogni valore di lunghezza d’onda, devono essere effettuate 2 misure in successione, una per il bianco e l’altra per il campione. Ciò consente di annullare gli errori dovuti a interferenza di sostanze presenti nella matrice del campione.
Gli strumenti monoraggio sono utilizzati più spesso per l’analisi quantitativa dove è richiesta una lunghezza d’onda fissa, mentre per quella qualitativa si utilizzano di preferenza gli s. a doppio raggio. In questi strumenti la radiazione che esce dalla sorgente viene sdoppiata prima di giungere sul campione con vari sistemi: quello più usato prevede che la radiazione incontri un disco rotante (detto chopper) caratterizzato da zone trasparenti alla radiazione, alternate ad altre riflettenti. In questo modo, la radiazione può essere alternativamente inviata sulla cella del campione e su quella del bianco e la lettura dell’assorbanza è realizzata automaticamente dal confronto delle intensità delle radiazioni che giungono sul rivelatore dalle celle del bianco e del campione. Nella fig. 2 è riportato lo schema di uno s. a doppio raggio che può lavorare sia nel visibile sia nell’ultravioletto grazie al sistema a due lampade a e a′, al tungsteno e al deuterio. Uno specchio b indirizza le radiazioni verso la fenditura c, dopodiché le radiazioni, indirizzate da uno specchio d, attraversano un filtro e che preseleziona un determinato intervallo di lunghezze d’onda (il filtro cambia automaticamente a seconda del campo di lunghezze d’onda prescelto). Le radiazioni vengono quindi inviate nella sezione del monocromatore in cui, dopo essere state disperse dal monocromatore a reticolo f, attraversano una fenditura ad apertura variabile g che consente di selezionare una banda passante più o meno ampia. Il monocromatore può ruotare, in modo che sulla fenditura si succedano radiazioni monocromatiche di diversa lunghezza d’onda. Uno specchio toroidale h indirizza poi la radiazione monocromatica verso il chopper i che, alternativamente, invia la radiazione verso la cella del campione l e del riferimento l′. Un sistema di specchi ricompone la radiazione in un unico raggio pulsante che viene registrato dal rivelatore m. Il sistema di elaborazione interno consente di distinguere i 2 segnali che si alternano sul rivelatore e li sottrae automaticamente dando la lettura dell’assorbimento del campione.
Nelle analisi quantitative, la frequenza della radiazione inviata sul campione è fissa e viene scelta in modo da assicurare un valore elevato dell’assorbimento. In questo modo si ottiene una differenza di lettura tra bianco e campione tale da rendere piccolo l’errore relativo sulla misura. In generale, il segnale viene elaborato da un microprocessore presente nello s. e si ottengono misure dell’assorbanza o direttamente della concentrazione del campione, che è proporzionale all’assorbanza. Nell’analisi qualitativa, la frequenza della radiazione incidente varia progressivamente in un predeterminato campo di frequenze; negli strumenti classici ciò si ottiene facendo ruotare, con opportuno meccanismo a orologeria, il sistema dispersore cosicché sul campione giungono successivamente i vari fasci monocromatici. L’intensità delle radiazioni trasmesse viene misurata e registrata così da ottenere uno spettro di assorbimento in funzione della frequenza (o della lunghezza d’onda o del numero d’onda). Poiché l’assorbimento alle specifiche frequenze dipende dalla natura chimica del campione, lo spettro di assorbimento risulta caratteristico per ogni sostanza e dai profili spettrali, anche complessi, si può risalire alla definizione qualitativa del campione.
S. a emissione. Questa tipologia di s. non si discosta in modo sostanziale da quanto sopra esposto; la differenza più importante è che la sorgente radiativa è il campione stesso. Affinché ciò avvenga, è necessario che le molecole o gli atomi del campione vengano eccitati in modo che, ritornando allo stato fondamentale, emettano radiazioni di caratteristica lunghezza d’onda. Anche se, storicamente, gli s. a emissione sono stati utilizzati nell’individuazione e riconoscimento di nuovi elementi, attualmente gli strumenti che lavorano in emissione trovano impiego soprattutto per analisi di tipo quantitativo basate sul fatto che l’intensità della radiazione che emerge dal campione è correlata alla sua concentrazione (➔ spettroscopia).
Sorgente. Nel caso di radiazione elettromagnetica, questa è rigorosamente monocromatica solo per le sorgenti laser mentre per le altre sorgenti è continua in un intervallo più o meno ampio di lunghezze d’onda o discontinua nel caso di sorgenti (per es., le lampade a catodo cavo) che emettono solo a caratteristiche frequenze. Se la radiazione non è monocromatica c’è sempre bisogno di un sistema monocromatore in grado di disperderla e selezionarla di modo che sia possibile operare a una determinata lunghezza d’onda. La scelta della sorgente dipende dalle lunghezze d’onda alle quali si indaga l’assorbanza del campione. Le sorgenti policromatiche utilizzate nel visibile sono solitamente le lampade a filamento di tungsteno o le lampade quarzo-iodio, nell’ultravioletto si utilizza la lampada ad arco al deuterio (➔ lampada). Nel campo dell’infrarosso si devono usare sorgenti che emettano solo radiazioni termiche (la sorgente ideale è un corpo nero che non emani radiazioni luminose); le sorgenti più utilizzate sono la lampada a filamento di nichel-cromo, la lampada di Nernst e il globar.
Nell’assorbimento atomico si preferisce usare sorgenti che emettono solo alle frequenze di risonanza del campione; in questo modo la frazione di radiazione assorbita è più grande che nel caso delle sorgenti continue e ciò permette risultati più accurati. Le sorgenti sono perciò di tipo discontinuo e risultano costituite dallo stesso elemento che si analizza, opportunamente eccitato. Una notevole innovazione è rappresentata dalle sorgenti laser che non richiedono un monocromatore cosicché quella che giunge sul campione e sul rivelatore non è una frazione, ma la radiazione nella sua interezza; ciò comporta un notevole aumento della sensibilità della misura. A causa della loro alta purezza spettrale, i laser funzionano, oltre che da sorgente, anche da elementi selettivi di frequenza e il potere di risoluzione ottenibile è grandissimo, a volte limitato soltanto dalla larghezza naturale della riga spettrale. Inoltre, per la notevole intensità della radiazione emessa, le sorgenti laser hanno dato origine a nuovi metodi di rivelazione basati sull’assorbimento a più fotoni.
Qualità essenziale di una sorgente, soprattutto nell’analisi qualitativa, è l’uniformità dell’intensità dell’emissione nell’intervallo di lunghezze d’onda in cui è operativa; aggiustamenti dell’intensità si possono ottenere per mezzo di stabilizzatori opportunamente inseriti nel circuito di alimentazione. L’emissione della sorgente può essere continua o pulsante. Quest’ultima tecnica è utilizzata quando il segnale della radiazione incidente potrebbe essere coperto da altri segnali più forti, come nel caso della fiamma nell’assorbimento atomico. Il rivelatore è in grado di riconoscere il segnale modulato della sorgente distinguendolo dal rumore continuo che giunge da altre fonti.
Dispersori e selettori di radiazione. Nella spettroscopia classica, che utilizza sorgenti policromatiche, la radiazione incidente, prima di essere inviata al rivelatore, viene dispersa e selezionata tramite i monocromatori. La caratteristica principale di un monocromatore è perciò la sua capacità di dispersione, misurata dal potere risolutivo. Negli strumenti più semplici (per es., nei colorimetri ‘da campo’) si utilizzano i filtri come selettori della radiazione: in questo modo vengono selezionate bande aventi larghezza di circa 10-20 nm. Tra i monocromatori a dispersione trovano impiego i prismi e, soprattutto, i reticoli. Il prisma, di quarzo o altro materiale trasparente alle radiazioni utilizzate, disperde la radiazione policromatica per rifrazione: infatti, quando questa passa attraverso il prisma (fig. 3), viene rifratta e l’angolo di rifrazione è funzione della lunghezza d’onda, cosicché all’uscita del prisma la direzione della radiazione è diversa per ogni componente monocromatica. I reticoli a diffrazione hanno il vantaggio, rispetto al prisma, di disperdere la radiazione in modo lineare, cosicché il potere risolutivo è pressoché costante in tutto il campo spettrale. I reticoli più utilizzati sono costituiti da una lastra riflettente su cui sono incisi numerosi solchi paralleli. Per una data direzione della radiazione incidente ogni componente spettrale viene diffratta in modo che le onde provenienti da tutti i solchi risultano in fase tra loro. Il potere risolutivo è funzione del numero di solchi investiti dalla radiazione; ne consegue che i reticoli migliori sono quelli dotati di un numero molto grande di solchi per unità di lunghezza. Nell’ultravioletto e nel visibile si utilizzano reticoli a 1200-1400 solchi/mm, con un potere risolutivo di 104-105. Ciò consente di distinguere due righe spettrali distanti 10 pm. Il vantaggio di questi strumenti sta nel fatto di essere operativi in un campo di lunghezze d’onda piuttosto ampio.
Rivelatore. In questa sezione dello s. avviene la ‘traduzione’ del segnale radiativo in segnale elettrico; in alcuni casi, come negli s. a emissione, le radiazioni vengono fatte incidere su una lastra fotografica che registra i segnali sotto forma di bande più o meno intense a varie frequenze. Negli strumenti monoraggio, sul rivelatore arrivano in tempi diversi il segnale del bianco e quello del campione; nel caso degli strumenti a doppio raggio, i segnali giungono alternati in rapida successione. Ogni dato scaturisce da un elevato numero di misure che vengono elaborate automaticamente. In generale i dati vengono visualizzati tramite display o, come avviene comunemente nell’analisi qualitativa, registrati sotto forma grafica.
Nelle tecniche spettroscopiche di tipo classico l’intensità della radiazione emergente dal campione è piuttosto piccola e il segnale che giunge sul rivelatore deve essere amplificato: a questo scopo vengono utilizzati cellule fotovoltaiche o, più spesso, fotodiodi e fotomoltiplicatori che consentono una maggiore amplificazione del segnale. Negli s. all’infrarosso si sfrutta l’energia termica associata alla radiazione e come rivelatori sono utilizzati le termocoppie (➔ coppia) e i bolometri piroelettrici. Diversa concezione hanno i rivelatori impiegati negli s. che montano sorgenti laser, il cui funzionamento si basa sulla variazione di parametri fisici caratterizzanti il campione. Il vantaggio di questi metodi rispetto a quelli tradizionali sta nell’alta risoluzione e nell’elevatissima sensibilità. A causa della sua coerenza, la radiazione laser, infatti, consente l’assorbimento a più fotoni (con le sorgenti tradizionali si ottiene l’assorbimento a un fotone).
I rivelatori multicanale consentono di esplorare l’assorbimento contemporaneamente su un’ampia zona di lunghezze d’onda. In questo modo, oltre a un notevole risparmio di tempo (la scansione dal lontano ultravioletto al visibile avviene in un tempo tra 0,1 e 1 s), si evitano i meccanismi mobili a orologeria per la rotazione del monocromatore; da ciò consegue un’alta riproducibilità delle misure e un ottimo rapporto segnale-rumore. Il sistema multicanale è costituito da una serie di fotodiodi (alcune centinaia di elementi, ognuno dei quali ha lo spessore di circa 0,5 mm) collocati sul piano focale del monocromatore. I fotodiodi ricevono contemporaneamente tutta la radiazione policromatica dispersa e tutti i dati spettrali sono acquisiti simultaneamente; è anche possibile esaminare miscele di campioni molto complesse. Naturalmente, in questo caso, il monocromatore deve essere collocato a valle della cella del campione che deve essere investita dall’insieme delle radiazioni. Tuttavia, grazie al breve tempo di esposizione necessario all’analisi, i rischi di fotodecomposizione del campione sono ridotti al minimo. Questa tecnica, inzialmente utilizzata nell’assorbimento nel visibile e nell’ultravioletto, è ora applicata anche in altri ambiti spettroscopici.