Il servirsi di una cosa (raramente di una persona) in modi e per scopi particolari; oppure l’usare abitualmente o ripetutamente una cosa. Anche, modo di comportarsi, generalmente seguito in una determinata epoca o in un determinato ambiente, proprio di una collettività, di un gruppo etnico o sociale.
L’u. è un diritto reale di godimento su cosa altrui dal contenuto più limitato rispetto all’usufrutto. Il titolare (usuario) può servirsi di essa e, se fruttifera, può raccogliere i frutti solo per quanto occorre ai bisogni suoi e della sua famiglia (art. 1021 c.c.). Il coniuge del proprietario della casa adibita a residenza familiare ha sui mobili che la corredano il diritto di u., che grava sulla porzione di eredità disponibile e, qualora questa non sia sufficiente, sulla quota di riserva del coniuge ed eventualmente sulla quota riservata ai figli (art. 540 c.c.). U. negoziali Pratiche o accordi osservati in determinate zone o per determinati tipi di contratti. Per u. normativi si intendono le consuetudini relative al contratto, ovvero i comportamenti posti in essere dai consociati nella convinzione della loro obbligatorietà. Per u. interpretativi si intendono le pratiche con le quali sono generalmente interpretate le clausole contrattuali. Nel diritto privato il legislatore menziona spesso gli u.: per es., l’art. 1340 c.c. dispone che le clausole d’u. si intendono inserite nel contratto se non risulta che non sono state volute dalle parti; l’art. 1498, co. 2, prescrive che, nella vendita, il pagamento del prezzo deve avvenire al momento e nel luogo della consegna, in mancanza di apposita pattuizione e salvi gli u. diversi; l’art. 1368 c.c. dispone che le clausole ambigue di un contratto si interpretano secondo ciò che si pratica generalmente nel luogo in cui il contratto è stato concluso, mentre, nei contratti in cui una delle parti è un imprenditore, si interpretano secondo ciò che si pratica generalmente nel luogo in cui è la sede dell’impresa. U. civici Diritti perpetui di u., spettanti ai membri di una collettività (comune, associazione) come tali, su beni appartenenti al demanio, o a un comune, o a un privato. Sono di origine antichissima, e si collegano al remoto istituto della proprietà collettiva sulla terra: in alcune regioni d’Italia risalgono all’età preromana, né sono stati cancellati dalla conquista romana; in altre regioni sono stati introdotti dai popoli germanici. Il contenuto di questi diritti è assai vario (di qui anche la varietà delle denominazioni): facoltà di pascolo, di alpeggio, di far legna (ius incidendi e capulandi), di raccoglier fronde (frondaticum) o erba (herbaticum), di spigolare (spigaticum), perfino di seminare (ius serendi). Vitali nel primo Medioevo, non furono scalzati dal feudalesimo. Un aspetto della lotta, sostenuta in età successive dalle città, quindi dalle monarchie, contro il feudalesimo, è la reazione contro le usurpazioni dei signori feudali in danno delle collettività: reazione sostenuta dai giuristi con il richiamo al principio che ognuno debba poter soddisfare le più elementari necessità della vita. Le idee dei giuristi non furono però condivise dagli economisti, che videro negli u. civici un impaccio alla libera disponibilità degli immobili e alla iniziativa dei proprietari. Di qui, con l’affermarsi dei principi economici del liberalismo, una serie di provvedimenti tendenti a limitare gli u. civici e culminanti (dopo i precedenti di Toscana e di Venezia) con la legislazione rivoluzionaria francese e con l’art. 648 del Code civil francese. La vigente legislazione italiana (l. 1766/1927; reg. 332/1928; l. 1070/1930) tende alla liquidazione degli u. civici, mediante assegnazione (totale o parziale) di un fondo gravato di u. civici ai comuni o alle associazioni, o mediante concessione di enfiteusi sul fondo (se coltivabile), a favore dei coltivatori meno abbienti del comune. È discussa, fin da tempo antico, la definizione concettuale degli u. civici: secondo l’opinione più accettabile essi sarebbero diritti reali che non rientrano in nessuna delle categorie tradizionali. La liquidazione degli u. civici è affidata a commissari regionali per la liquidazione degli u. civici, i quali provvedono all’attuazione dei compiti loro affidati dalla citata l. 1766/1927. I commissari, dotati di funzioni giurisdizionali e amministrative, sono nominati dal Consiglio superiore della magistratura fra i magistrati di grado non inferiore a consigliere di Corte d’appello. Contro le loro decisioni è ammesso reclamo alla Corte d’appello di Roma.
Nel diritto del lavoro gli u. sono considerati fonti sussidiarie, in quanto operano in mancanza di una disciplina legislativa, tuttavia con deroga rispetto al sistema dei principi generali codificato con l’art. 8 delle preleggi del codice civile. L’art. 2078 c.c. precisa che il rapporto di lavoro è regolato in primo luogo dalle norme di legge, quindi dal contratto collettivo e, solo in mancanza di entrambe queste fonti, dagli usi. La norma riconosce, però, l’operatività e, conseguentemente la prevalenza, degli u. maggiormente favorevoli rispetto alle norme dispositive di legge regolanti la stessa materia. Gli elementi dell’u. normativo sono: uno di tipo esteriore, consistente nella ripetizione costante di un determinato comportamento (cosiddetta diuturnitas); l’altro di carattere psicologico, determinato dalla convinzione di osservare e rispettare, adottando quel comportamento, una norma giuridica (opinio iuris ac necessiatis). Gli u., inoltre, avendo le caratteristiche proprie della norma giuridica, devono rivestire il carattere della generalità e astrattezza, anche se operanti in una zona determinata. Una tipologia di u. che differisce da quella normativa è l’u. aziendale, che agisce sul piano dei rapporti individuali con la stessa efficacia di un contratto collettivo aziendale, in quanto assume le caratteristiche di un obbligo unilaterale di carattere collettivo. Pertanto, ai fini della sua operatività, presuppone non una semplice reiterazione di comportamenti, ma uno specifico intento negoziale di regolare anche per il futuro determinati aspetti del rapporto lavorativo. Si tratta, in altri termini, della sussistenza di una prassi generalizzata, che si realizza attraverso la reiterazione di comportamenti posti in essere spontaneamente, e non in esecuzione di un obbligo, a differenza degli u. normativi, i quali si risolvono, per i dipendenti, in una attribuzione generalizzata di un trattamento più favorevole rispetto a quello previsto dalla legge o dalla contrattazione collettiva. Nella individuazione di tale intento negoziale non può prescindersi dalla rilevanza dell’assetto normativo positivo in cui lo stesso si è manifestato.
Nel diritto internazionale, l’u. della forza, inteso come il ricorso da parte di uno Stato a operazioni militari contro un altro Stato, è stato legittimo – sia pure a determinate condizioni e nel rispetto di eventuali obblighi assunti a livello pattizio – fino alla nascita delle Nazioni Unite nel secondo dopoguerra. Più in particolare, il regime della guerra si distingueva da quelli previsti per i procedimenti di autotutela (intervento, rappresaglia, legittima difesa, necessità) per i quali era necessario dimostrare l’esistenza di uno specifico titolo giuridico. Quanto alla guerra, almeno fino al Patto della Società delle Nazioni, gli Stati godevano di un illimitato ius ad bellum. La guerra era, infatti, uno strumento ammesso nel diritto internazionale per risolvere le controversie internazionali, in specie quelle politiche, facendo prevalere il proprio sull’altrui interesse, anche in assenza di un titolo giuridico idoneo a fondarlo. Proprio in quell’epoca, peraltro, ha iniziato a svilupparsi il cosiddetto diritto bellico, vale a dire il diritto applicabile alla condotta delle ostilità, che disciplina la violenza bellica e la protezione delle vittime dei conflitti armati e della popolazione civile.
L’u. della forza nella Carta delle Nazioni Unite. - Il regime giuridico internazionale relativo all’u. della forza è radicalmente mutato con l’entrata in vigore, il 24 ottobre 1945, della Carta delle Nazioni Unite che ha portato a compimento il processo finalizzato a limitare e bandire il ricorso alla guerra iniziato con il Patto della Società delle Nazioni del 1919 (che condizionava tale ricorso a una serie di vincoli procedurali, senza peraltro disciplinare i procedimenti di autotutela violenta diversi dalla guerra) e proseguito con la conclusione del Patto Kellogg-Briand del 27 agosto 1928 (che, pur prevedendo che le controversie dovessero essere risolte in modo pacifico, non bandiva espressamente le misure non implicanti l’uso della forza).
Il sistema di sicurezza collettiva delle Nazioni Unite è imperniato su un divieto generale dell’u. della forza armata (esteso anche alla sua minaccia) stabilito dall’art. 2, par. 4 della Carta (che si riflette nell’obbligo di soluzione pacifica delle controversie tra Stati membri) e che prevede come un’unica eccezione quella della legittima difesa individuale e collettiva. Nell’ambito di questo sistema il monopolio dell’uso della forza è attribuito al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, che, a partire dall’ultimo decennio del 20° secolo, ha autorizzato gli Stati membri, in vari casi, a ricorrere all’uso della forza uti singuli o nell’ambito di organizzazioni internazionali regionali.
Il funzionamento, per vari aspetti imperfetto, del sistema di sicurezza collettiva non ha peraltro impedito che il divieto dell’u. della forza assurgesse a norma di diritto internazionale consuetudinario, come riconosciuto dalla Corte internazionale di giustizia nella celebre sentenza del 27 giugno 1986 relativa al caso Nicaragua-USA. Si può anzi affermare che il nucleo duro della proibizione dell’uso della forza, costituito dal divieto di aggressione (cfr. risoluzione 3314-XXIX dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite sulla definizione di “aggressione”), appartenga ormai al novero delle norme imperative del diritto internazionale.
Il quadro giuridico delineato non è certo al riparo da continue sollecitazioni da parte delle grandi potenze, specie dopo gli attacchi terroristici contro gli USA dell’11 settembre 2001, che tendono a giustificare i loro interventi militari invocando un’interpretazione estensiva della nozione di legittima difesa (la dottrina sulla “azione preventiva” del presidente statunitense G.W. Bush) o delle risoluzioni del Consiglio di sicurezza ex capitolo VII della Carta (nel senso di contenere autorizzazioni “implicite”) o addirittura la nascita di nuove eccezioni alla proibizione generale dell’u. della forza (per esempio, l’intervento umanitario). Ciononostante, tale prassi “interventista”, in tutte le sue ramificazioni, ha una portata giuridica inferiore al suo significato politico, perché poco omogenea, a volte contraddittoria e soprattutto contestata dalla stragrande maggioranza degli Stati.
U. di borsa L’insieme delle consuetudini derivanti dagli affari di borsa (esecuzione di ordini, modalità di contrattazione, regolarità dei titoli, garanzie contrattuali, liquidazione delle insolvenze ecc.) che, fino al 1990, erano selezionate e raccolte con periodicità quinquennale dalle Camere di commercio al fine di regolamentare specifiche attività operative di borsa, non esplicitamente previste nelle disposizioni normative. In seguito alla progressiva regolamentazione delle attività borsistiche effettuata dalla CONSOB, il ricorso agli u. come codice deontologico di comportamento è venuto a cessare.
Il particolare modo in cui viene attuato un sistema linguistico generale e astratto in un determinato periodo di tempo, ambiente geografico o socioculturale, settore di attività, tipo di funzioni dell’atto linguistico.
Adoperato in modo assoluto, senza determinazioni, l’u. comune e corrente, contemporaneo, proprio in generale dell’intera comunità linguistica (lingua d’u.).