Tutta la regione adriatica, che parte grosso modo dalle foci del fiume Isonzo e si sviluppa in particolare lungo la costa della Dalmazia, è stata da sempre una terra multilingue dove, dal crollo dell'Impero romano e con l'insediamento delle popolazioni slave, vivevano, sotto il segno della tradizione cattolica, italiani, sloveni e croati.
Gli slavi hanno origine indoeuropea, provengono dall'Europa orientale e si distinguono in tre gruppi: quello occidentale comprende i polacchi, i cechi, gli slovacchi, i lusaziani o sorabi. Il ceppo orientale è costituito dai russi, dagli ucraini e dai bielorussi, quello meridionale, invece, dai serbi, dai croati, dai macedoni, dai bulgari e dagli sloveni. (I bulgari hanno origine turco-mongola, e hanno di fatto rinunciato al proprio ethnos). Gli slavi intrapresero le loro grandi migrazioni verso Occidente a partire dai secoli V-VI d.C.
Gli sloveni sono la nazione più occidentale e meno numerosa tra gli slavi del Sud.
Scipio Slataper scriveva come Trieste avesse, di fatto, due anime: quella italiana e quella slava. E la città, sviluppatasi in porto ed emporio tra i più importanti in Europa, visse dal 1382 sotto l'Impero asburgico. Agli inizi del Settecento (1719) fu dichiarata porto franco e conobbe il suo massimo sviluppo sotto il regno di Maria Teresa d'Austria, assurgendo ad area portuale di riferimento per tutto il Centro-Europa: nel contesto di questa attività emporiale fiorirono i commerci, che fecero confluire a Trieste genti da tutto il mondo, tanto che venne registrata in città la presenza di 90 diverse etnie e di molte religioni. Tra tutti furono gli sloveni l'unica comunità nazionale minoritaria autoctona del territorio triestino e del suo entroterra.
La presenza slovena aveva segnato la città di Trieste molto prima della sua fioritura economica. Sarà utile ricordare alcuni esempi di come Trieste, nel corso della storia, fosse un riferimento importante non soltanto dal punto di vista economico ma rappresentasse la possibilità, per il mondo sloveno centrale, di rapportarsi con civiltà e culture diverse, che non fossero protese unicamente verso il Centro-Europa (Vienna, Praga, Cracovia), dove, di fatto, l'intellighenzia slovena veniva perlopiù formata (almeno fino al 1918, anno in cui venne fondato l'Ateneo di Lubiana): già a metà del Cinquecento, infatti, lo sloveno era, assieme all'italiano e al tedesco, oltre al latino, naturalmente, una delle lingue in uso nella cerchia del vescovo triestino Pietro Bonomo (1458-1546), grande umanista, che aveva voluto presso di sé Primož Trubar (1508-1586), padre della lingua letteraria e della letteratura slovena. Lo sloveno era in uso anche in alcune famiglie nobili triestine, ma si ricorderà anche l'insigne predicatore barocco Janez Svetokriški (Giovanni di Santa Croce, 1647-1714), al secolo Tobija Lionelli, di madre slovena e padre italiano, priore al convento triestino dei frati cappuccini, alcuni vescovi di Trieste (così pure di Gorizia). Si ricordi anche il frate piemontese Gregorio Alasia da Sommaripa (1578-1626), fondatore di un convento di serviti a Duino, nei pressi di Trieste, e autore del primo vocabolario sloveno-italiano, stampato a Udine nel 1607.
Dopo il 1848 cominciò a consolidarsi anche tra gli sloveni la coscienza dell'identità nazionale, che venne a manifestarsi con la fioritura di associazioni musicali, teatrali, sale di lettura, circoli politici, organi di stampa. Trieste divenne, per la sua conformazione multietnica peculiare, laboratorio del cosmopolitismo e della collaborazione delle singole comunità slave, in un'epoca contraddistinta soprattutto dall'idea di panslavismo, sotto l'influsso herderiano del trattato Ideen zur Philosophie der Geschichte der Menschheit, in cui l'autore illustrava le virtù dei popoli slavi.
Nel frattempo, tra gli italiani a Trieste si consolidano anche le idee irredentiste contro il potere asburgico, oppressore del patriottismo italiano.
La Grande Guerra fu determinante per i rapporti sloveno-italiani. Nel 1915 fu, infatti, stipulato in segreto il Patto di Londra tra l'Italia e la Triplice Intesa. L'Italia si impegnava a entrare in guerra, e in caso di vittoria le sarebbero stati assegnati cospicui territori, tra cui la Venezia Giulia, l'Istria e parte della Dalmazia. La non completa realizzazione delle promesse territoriali nel dopoguerra generò il mito della “Vittoria mutilata” che fu usato come strumento per minare lo Stato liberale e promuovere il fascismo.
Alla fine della guerra, con il crollo dell'Impero asburgico, sulle rovine della vecchia Austria-Ungheria nacquero nuovi Stati sovrani, specie nell'Europa centrale. Venne fondata anche la monarchia jugoslava – il Regno dei serbi, dei croati e degli sloveni. Nel 1920 fu sottoscritto il Trattato di Rapallo, che sanciva l'annessione all'Italia del territorio, detto della Venezia Giulia, come previsto dal Patto di Londra: divennero così cittadini italiani complessivamente circa 500.000 sudditi della monarchia jugoslava, in maggioranza sloveni. Nonostante le promesse fatte dalle autorità, già dall'inizio degli anni Venti, e in modo incisivo dopo l'ascesa al potere di Mussolini, sanciti dalle leggi fasciste, vennero messi in atto una pesante snazionalizzazione, un genocidio culturale e nazionale, di cui esiste ampia e documentata letteratura. E nel 1938 proprio a Trieste Mussolini parlò delle leggi razziali, adottate dall'Italia fascista.
Alla fine della guerra il governatore italiano della Venezia Giulia, il generale Carlo Petitti di Roreto, pubblicò un decreto che dovette essere reso pubblico e letto persino in chiesa, in cui l'Italia, 'terra di grandi libertà', dichiarava di voler dare agli sloveni gli stessi diritti di quelli goduti dagli altri cittadini e che avrebbe istituito un maggior numero di scuole in lingua slovena di quante ce ne fossero state sotto gli Asburgo. Ma pubblicò anche un decreto, in cui si ordinava l'espulsione di tutte le persone ritenute sospette. Ebbe così inizio il tragico destino della gente slovena del Litorale: molti intellettuali e molti rappresentanti del clero sloveno migrarono spontaneamente, ma un gran numero fu costretto all'esilio. Molti furono mandati al confino in Sardegna o altrove, altri esuli in Jugoslavia. Il vescovo triestino Andrej Karlin, dopo che una banda armata fece irruzione in vescovado, venne costretto alle dimissioni. Ciononostante, alla fine della guerra le attività culturali slovene ripresero lentamente il proprio corso.
Ben presto, e ben prima dell'ascesa al potere di Mussolini, la sera e la notte del 13 luglio 1920, la furia nazionalista e squadrista dette alle fiamme l'edificio del Narodni dom, ma si scagliò anche contro altre sedi di istituzioni, istituti bancari, abitazioni private di sloveni e slavi a Trieste. La squadra ebbe come comandante Francesco Giunta (1887-1971), squadrista e fascista, segretario del Partito nazionale fascista (PNF), governatore della Dalmazia, di cui la Jugoslavia, nel 1946, tramite la Commissione alleata richiese invano l'estradizione all'Italia, accusandolo di crimini di guerra. Giunta ebbe a scrivere come “da Trieste, pulita con ferro e fiamme, ebbe inizio l'epopea fascista”. Boris Pahor assistette all'incendio con la sorellina Evelina che allora aveva poco più di quattro anni. L'esperienza lo traumatizzò: ne scrisse nella novella Il rogo nel porto, che dà il titolo all'omonima silloge di prose brevi.
La situazione mutava rapidamente: le leggi imponevano altre misure soprattutto sul piano economico che si stava, nel caso sloveno, gradualmente indebolendo. Gli istituti di credito subirono pesanti perdite nel passaggio da una sovranità statale all'altra, e il cambio dei depositi di valuta fu assai sfavorevole. Si volle colpire l'economia in quanto il capitale in mano slovena e slava a Trieste, prima del 1918, ammontava circa al 50% di tutto il capitale triestino. E il potere economico poteva essere pericoloso.
Con l'avvento del fascismo la situazione si inasprì ulteriormente. Nel 1927 furono soppresse tutte le associazioni e le istituzioni slovene. I cognomi furono italianizzati per decreto. Furono cambiati, italianizzati, storpiati cognomi e nomi propri, a volte addirittura scalpellate le lapidi cimiteriali. La lingua slovena venne proibita ovunque, nelle scuole lo sloveno fu abolito.
In questo contesto nacque e si sviluppò tra gli sloveni del Litorale un forte movimento antifascista, considerato il primo in Europa. Il regime fu durissimo nel tentare di reprimerlo, tanto da istituire ben due processi del Tribunale speciale a Trieste: il primo nel 1930, il secondo nel 1941. Il Tribunale speciale per la sicurezza dello Stato fu istituito da Mussolini nel 1926. Non aveva una propria sede, ma si spostava lungo l'Italia. Il consiglio dei giudici era costituito da ufficiali della polizia fascista in camicia nera. L'unica città in cui il Tribunale speciale promosse due processi distinti a distanza di undici anni fu Trieste. Nove delle complessive trentuno condanne a morte, pronunciate dal Tribunale in tutta l'Italia, furono destinate ad antifascisti sloveni. Nel 1930, al cosiddetto I processo di Trieste, i condannati a morte furono Ferdo Bidovec, Fran Marušič, Zvonimir Miloš e Alojz Valenčič, fucilati a Basovizza il 6 settembre. Il monumento, eretto nel luogo dell'esecuzione, fu più volte profanato anche negli anni più recenti. Ogni anno, in questa data, migliaia di persone si radunano per commemorare queste prime vittime dell'antifascismo in Europa. Più volte, in quest'occasione, è stato invitato a parlare anche Boris Pahor.
Il II processo di Trieste ebbe come protagonista principale il comunista Pino Tomažič (il processo è noto anche come Processo Tomažič). Gli altri quattro condannati a morte furono Viktor Bobek, Ivan Ivančič, Ivan Vadnal e Simon Kos. L'esecuzione ebbe luogo al poligono di Opicina (Opčine), nei pressi di Trieste il 15 dicembre 1941. I caduti vennero seppelliti in luogo segreto. Fu la sorella di Ivančič a scoprire il luogo di sepoltura a Fontane presso Villorba, a Treviso, ma dovette mantenere il segreto fino alla fine della guerra, quando le spoglie dei cinque fucilati vennero trasportate a Trieste. Le esequie solenni vennero celebrate in piazza Unità il 28 ottobre 1945. Sul luogo della sepoltura segreta, nel 2014, alla presenza di Boris Pahor, venne inaugurato un monumento ai cinque caduti. Nel poligono di Opicina, invece, le autorità militari dell'Esercito Italiano ancora non consentono il libero accesso al luogo dell'esecuzione. Il Comune di Trieste ha stanziato i fondi per un monumento che, al momento, non è possibile erigere.
Agli inizi di aprile del 1941 vi fu l'invasione della Jugoslavia da parte dell'asse italo-tedesca. Immediatamente gli sloveni si mobilitarono e fondarono il Fronte di liberazione nazionale - Osvobodilna fronta slovenskega naroda, cui aderirono tutte le forze antifasciste. Molti furono allora gli sloveni deportati nei campi di concentramento fascisti. Dalla fine del 1943 e fino al 1945 l'armata partigiana jugoslava, capitanata da Josip Broz Tito, combatté quella nazista. La Chiesa di Lubiana si oppose strenuamente al Fronte di liberazione in nome dell'anticomunismo e si schierò dalla parte dell'occupante, creando nel contesto sloveno il doloroso fenomeno dei domobranci, difensori della patria, come ebbero a chiamarsi i collaborazionisti.
I domobranci si stabilirono anche a Trieste e furono loro ad arrestare Boris Pahor che, dopo il 1943, aderì alla Resistenza slovena. Fu deportato in Germania. Dal mese di settembre 1943 partirono da Trieste per la Germania numerosi convogli. Il 26 febbraio 1944 fu la volta del convoglio 28, sul quale si trovava anche Boris Pahor. Ne sono partiti da Trieste per Dachau complessivamente 69 documentati, altri 13 sono probabili. Dalle testimonianze risulta come nei vagoni triestini ci fossero perlopiù sloveni e croati.
A Trieste fu istituito l'unico campo di sterminio nazista su territorio italiano, la Risiera di San Sabba, oggi monumento nazionale, in cui morirono italiani, sloveni, croati e ebrei (fu, perlopiù, per gli ebrei innanzitutto luogo di transito). Scrive Boris Pahor nel suo libro Triangoli rossi (Bompiani 2015):
...la cenere e le ossa delle vittime bruciate finivano in mare, gettate vuotando i sacchi dalla riva vicina al rione di San Sabba, dove si trova la Risiera.
Non si conosce il numero di persone, che sono passate attraverso la Risiera perché gli ebrei, per esempio, venivano mandati per lo più a morire ad Auschwitz: si calcola un numero dai due ai quattro mila, altri dicono cinque mila prigionieri.
Anche sul modo di uccidere i detenuti esistono più versioni, pare abbiano usato il gas dei tubi di scarico immessi in vettura chiusa, ma il modo più barbaro, che non dava la certezza di non bruciare un corpo ancora vivo, era il colpo alla nuca con un battaglio di ferro. Si hanno delle testimonianze terribili sui metodi d’inchiesta, d’interrogatorio in questo Campo, qualcuno ha intravisto, di sfuggita, una ragazza con il ventre azzannato da un cane, il primo soldato entrato nella Risiera alla liberazione, si sarebbe trovato davanti ad un corpo appeso ad un gancio, come in una macelleria.
In ogni modo, nelle celle i prigionieri hanno lasciato delle testimonianze delle torture subite.
La liberazione di Trieste dall'occupazione nazista avvenne i primi giorni di maggio del 1945 da parte delle truppe partigiane jugoslave, in cui la componente rivoluzionaria marxista aveva prevalso su quella nazionale. Si ebbero, subito dopo la guerra, dei tragici eccidi, perpetrati dall'esercito jugoslavo a Trieste (e in tutto il territorio sloveno), che segnarono profondamente i rapporti italo-sloveni e che si collegano principalmente alla componente ideologica.
Il territorio della Venezia Giulia e dell'Istria venne diviso in due zone: la zona A, sotto il controllo del Governo Militare Alleato, comprendeva le città e le province di Trieste e Gorizia; la zona B, sotto il controllo jugoslavo, la città di Capodistria e parte della penisola istriana. Tale divisione del territorio si consolidò dopo il 1954, quando la zona A divenne definitivamente italiana, la zona B rimase, invece, alla Jugoslavia. Tale situazione venne definitivamente sancita e confermata dal Trattato di Osimo del 1975.
Nel 1991 la Slovenia, a seguito di un plebiscito, dichiarò la propria indipendenza dalla Jugoslavia e divenne una repubblica autonoma. Entrò a far parte dei paesi della NATO e, nel 2004, divenne uno dei paesi membri dell'Unione Europea. La Costituzione della Repubblica di Slovenia è una Costituzione di tipo europeo. Tra le altre cose garantisce alle minoranze italiana e ungherese un proprio rappresentante nel Parlamento.
Nel 2001 la comunità nazionale slovena stanziata lungo tutto il confine orientale dell'Italia vide approvata dallo Stato italiano la legge per la sua tutela, legge che tuttora non è stata applicata nella sua totalità.
I rapporti italo-sloveni, molto tesi durante tutto il Novecento, si sono finalmente normalizzati. I confini sono caduti, restano i limiti che la storia ha definito nelle coscienze dei singoli. E il rispetto della memoria per costruire un futuro di reciproca comprensione e pacifica convivenza entro i comuni confini dell'Europa.
La letteratura slovena
Gli sloveni non si riconoscono nel territorio ma nella lingua e, conseguentemente, nella letteratura che, durante le varie epoche storiche, è stata la forma di cultura e arte più interessante e rappresentativa dei mutamenti e degli sviluppi della società e della nazione.
La proto-era - Si colloca tra il IX secolo e il 1550. Risalgono presumibilmente agli anni tra il 972 e il 1000 i Brižinski spomeniki, che costituiscono la testimonianza della forma più arcaica della lingua slovena, ritrovati nel 1807 in un codice miscellaneo del vescovo Abraham (morto nel 994) a Frisinga. Esistono vari altri manoscritti che coprono tutto il Medioevo, ritrovati perlopiù nelle biblioteche europee e che dimostrano l'uso della lingua slovena in tutte le diverse sfere del quotidiano. La loro provenienza copre gran parte dell'odierno territorio sloveno.
L'età della Riforma - Fu il luteranesimo a definire l'integrazione storico-culturale degli sloveni con Primož Trubar (1508- 1586), formatosi tra Fiume, Salisburgo, Trieste. Nel 1550 egli pubblicò l’Abecedario e il Catechismo in lingua slovena. Ebbe inizio così il percorso della lingua letteraria e della letteratura slovena. Gli adepti di Trubar saranno in tal senso di fondamentale importanza. In quanto protestanti vennero costretti all'esilio in Germania. Sotto l'influsso delle teorie di Lutero uno di loro, Jurij Dalmatin (1547-1589), portò a termine nel 1584 la prima traduzione integrale delle Sacre scritture.
Controriforma - Con l'istituzione dell'ordine dei gesuiti tutti i predicatori protestanti furono espulsi dal Paese, per ordine dell'Arciduca, nel 1598, sulla base del principio cuius Regio, eius Religio. L'inquisizione slovena fu guidata dal vescovo di Lubiana Tomaž Hren (1560-1630), figura centrale della Controriforma e di tutto il periodo storico. I libri protestanti furono bruciati, i protestanti perseguitati. Si ha in questo periodo, nel campo della cultura, proprio come reazione al protestantesimo, considerato il 'male venuto dal Nord' (F.Tomizza), un rifiuto nei confronti della cultura tedesca. Lo sguardo volge verso il barocco italiano.
Illuminismo - Nell'età delle Accademie l'attività culturale e letteraria avvia un nuovo corso, che avrà uno sviluppo straordinario sotto l’egida del più autorevole esponente dell'Illuminismo sloveno, il barone Sigmud (Žiga) Zois (1747-1819). Fu la sua cerchia a prefiggersi un programma ambizioso in sintonia con le idee illuministe, che venne per gran parte realizzato. Nel contesto letterario, che non comprendeva la letteratura religiosa, Zois promosse soprattutto il lavoro del linguista Jernej Kopitar (1780-1844), uno dei fondatori della filologia slava, nonché censore ufficiale dei testi sloveni al servizio del cancelliere Metternich. Kopitar, autore della prima grammatica della lingua slovena su basi scientifiche, fu molto stimato da intellettuali europei del calibro dei fratelli Schlegel, Jakob Grimm, K.W. von Humboldt, Goethe. Rilevante tra gli illuministi anche il lavoro del poeta Valentin Vodnik (1758-1819) e soprattutto del drammaturgo Anton Tomaž Linhart (1756-1795), che aveva introdotto sul territorio sloveno le idee della Rivoluzione francese.
Romanticismo - Fu la poesia di France Prešeren (1800-1848), poeta che si era aperto, grazie all'amico e mentore Matija Čop (1797-1835), a Petrarca, Shakespeare, Bürger, Goethe. Inizia con Prešeren la letteratura slovena moderna. Importante anche il suo pensiero politico: nella sua Zdravljica, di cui una strofa è inno nazionale della Repubblica di Slovenia, egli espone le idee della Rivoluzione francese, ma propugna anche l'idea degli sloveni come nazione indipendente, scagliandosi contro gli oppressori dei diritti nazionali e propone una visione futura della nazione slovena in una società libera, formata da tutti i popoli del mondo. La sua silloge Poezije, del 1844, venne censurata.
La seconda metà dell’Ottocento - Dopo il 1848 si ha uno sviluppo straordinario delle attività culturali e della coscienza politica. Nel contesto letterario la funzione della parola viene compresa non più come mera espressione della poesia: sulla scia degli autori europei, la prosa slovena era alla ricerca o stava consolidando le proprie peculiarità. Questo fu anche un momento determinante per la critica letteraria. Tra le numerose personalità di spicco ricorderemo soprattutto lo scrittore Fran Levstik (1831-1887).
Il Novecento - La cultura slovena del Novecento s'intreccia in modo stretto e imprescindibile con la grande rivoluzione artistica e di pensiero, che ha coinvolto l'Europa a cavallo tra Ottocento e Novecento. Innanzitutto vanno ricordati gli autori del Modernismo sloveno: i poeti Dragotin Kette (1876-1899), Josip Murn (1879-1901), Oton Župančič (1878-1949) e il narratore Ivan Cankar (1876-1918). La loro poetica fu stimolata dalla nuova libertà di espressione, di cui fu pervaso lo spirito europeo di quegli anni. Furono dichiaratamente anti-borghesi, con uno sguardo attento al mondo interiore. Cankar sentì la necessità di anelare a un mondo socialmente più giusto e si impegnò, per questo, anche nell'attività politica.
Va ricordato, in particolare per il romanzo Doberdob, capolavoro sulla Grande guerra, Prežihov Voranc (1893-1950).
Gli anni Venti furono segnati soprattutto da Srečko Kosovel (1904-1926), geniale poeta e pensatore sloveno, nato nell'entroterra triestino. Basò il proprio pensiero artistico sui principi dell’umanesimo e sulla necessità di una società migliore, esprimendolo attraverso la volontà di destituire le forme e i modelli tradizionali e coniò una propria poesia costruttivista, unica in Europa. Imponente il suo lascito letterario costituito dall'opera in versi e da importanti scritti teorici.
Tra le figure più interessanti di tutto il Novecento rientra senza dubbio anche Edvard Kocbek (1904-1981). Legato all'esistenzialismo cattolico (fu allievo di Emmanuel Mounier) fu rappresentante dei cristiano-sociali del Fronte di liberazione nazionale sloveno. Straordinarie le sue sillogi poetiche Zemlja (1934) e Groza (1963), nonché il suo diario partigiano Tovarišija - La compagnia (1949), pubblicato anche in italiano con la traduzione di Alojz Rebula.
Una nota particolare va fatta per la lirica slovena degli anni della Seconda guerra mondiale per l'intensità e la mole della produzione: è questo un capitolo a sé stante in tutto il panorama contemporaneo della letteratura europea.
Molti sono stati i grandi narratori sloveni negli anni recenti. Ricorderemo almeno Ciril Kosmač (1910-1980), Boris Pahor (1913-2022), Alojz Rebula (1924-2018), Drago Jančar (1948).
La produzione poetica ha conosciuto grande impulso dal 1953, anno in cui venne pubblicata la silloge Pesmi štirih con i versi di Kajetan Kovič (1931-2014), Janez Menart (1929-2004), Tone Pavček (1928-2011) e Ciril Zlobec (1925-2018). Molti sono, tra gli autori sloveni, i poeti che meriterebbero un approfondimento, in particolare Tomaž Šalamun (1941-2014), Dane Zajc (1929-2005), Gregor Strniša (1930-1987), Svetlana Makarovič (1939) e Miroslav Košuta (1936).
La nota biografica di Boris Pahor con la cronologia dettagliata è contenuta nella scheda, pubblicata sul sito:
http://www.treccani.it/enciclopedia/boris-pahor/