Con riferimento al pontefice romano come sovrano temporale, lo Stato della Chiesa, governato dal papa fino al 1870.
Lo Stato P. nacque da una base costituita dalla sovrapposizione del Patrimonio di S. Pietro (➔) sul ducatus bizantino. Alla metà dell’8° sec. il duca come funzionario bizantino cessava di esistere e alla sua autorità si sostituì quella del papa e dell’aristocrazia senatoria romana. Con la caduta dell’Esarcato nelle mani dei Longobardi, quest’aristocrazia senatoria non poté divenire padrona di fatto del Ducato (che comprendeva anche la Tuscia meridionale, parte della Sabina, dell’Umbria e della Campania) proprio per la presenza in Roma della curia del vescovo e del vescovo stesso, il papa, forte, oltre che dell’autorità religiosa e del prestigio goduto sull’universitas fidelium, anche della somma dei poteri giurisdizionali e politici esercitati di fatto su Roma e il ducato da quasi due secoli di concorrenza con le autorità bizantine. I papi affermarono questi poteri sia contro l’aristocrazia romana, sia contro i Longobardi, pur avendo necessità dell’aiuto di quella contro questi (Gregorio II e III, Zaccaria).
Dopo la donazione di Sutri fatta da Liutprando nel 728, seguita poco dopo dall’altra di Bomarzo, Bieda, Orte, Ameria, i papi, di fronte all’insorgente minaccia di Astolfo e contro le aristocrazie romana e ravennate, cercando un nuovo protettore, stipularono con Pipino il Breve il patto di Quierzy, detto promissio carisiaca, in base al quale in caso di vittoria franca contro i Longobardi e in cambio della nomina di Pipino a patrizio romano, il Ducato di Roma (considerato già appartenente alla Chiesa) avrebbe potuto annettersi la Corsica, la Tuscia longobarda, l’Esarcato, la Venezia, l’Istria, l’Emilia, le città e regioni a S della linea Luni-Monselice, e infine i ducati di Spoleto e Benevento. Il patto non fu mantenuto da Pipino e neppure Carlomagno rispettò integralmente la promissio carisiaca, benché nel 774 donasse il territorio prossimo a Roma, l’Esarcato e la Pentapoli. Seguirono l’accordo e le donazioni del 781 (il papa rinunciava al dominio diretto sui ducati di Tuscia e di Spoleto, Carlo garantiva alla Chiesa i possessi patrimoniali nel Beneventano, cedeva Sora, Arpino, Arce, Capua, Teano, Aquino, la Sabina, Viterbo, Orvieto, Soana, Roselle), che furono confermati nell’817 da Ludovico il Pio, nel 962 da Ottone I, nel 1020 da Enrico II. Ma solo le terre più vicine a Roma e al Lazio rimasero in effettivo possesso della Chiesa e dei papi, nei primi secoli del Medioevo; le altre erano contestate dal marchese di Toscana, dall’arcivescovo di Ravenna, dal Regno Italico, mentre a Roma e nel Lazio continuava la resistenza di elementi, specie aristocratici, che potevano essere frenati solo con la forza dei Franchi.
Caduta la dinastia carolingia, prevalse l’aristocrazia romana, che annullò pressoché il potere del pontefice (età ferrea del papato). Le famiglie dei Teofilatto, dei Crescenzi, dei Tusculani si alternarono nel titolo di patricius o signore di Roma. Con l’affermarsi della casa di Sassonia nella direzione dell’Impero, il potere passò dalla nobiltà romana agli imperatori, rimanendone praticamente esclusa la gerarchia ecclesiastica. Ma poi, manovrando fra aristocrazia romana, Normanni, marchesi di Toscana e Impero, Ildebrando di Soana (dal 1073 Gregorio VII) affermò, insieme al principio della riforma della vita degli ecclesiastici e dell’indipendenza di questi dal controllo temporale, anche l’autorità pontificia sul patrimonio territoriale di S. Pietro.
Sino alla fine dell’11° sec. il territorio effettivo del Patrimonio di S. Pietro fu quello compreso tra Acquapendente (più tardi tra Radicofani) e Ceprano: l’antico Ducato romano più la Sabina e qualche acquisto nella Toscana meridionale e nella Campania, quasi tutta l’Umbria fino al Trasimeno. Su questo territorio e su quello concesso dalle donazioni di Matilde di Canossa, confermate a Pasquale II nel 1102, i pontefici avevano effettiva autorità sin dalla fine dell’11° secolo.
Dopo la grave minaccia rappresentata per lo Stato P. dall’unione del Regno di Sicilia al Regno d’Italia e all’Impero sotto Enrico VI, Innocenzo III iniziò, durante la minore età di Federico II, la serie di recuperationes che avrebbe dovuto fare del Patrimonio di S. Pietro uno Stato tale da rompere il cerchio creatogli attorno dall’unione, nella casa sveva, di quelle due corone. Da ciò la lotta contro il ghibellinismo e ogni tendenza unitaria che sarebbe stata esiziale allo Stato della Chiesa. Dopo la vittoria ghibellina di Montaperti (1260), la Chiesa, considerando in pericolo il proprio Stato e sé stessa, affidò di nuovo la difesa del potere temporale a un protettore straniero, Carlo d’Angiò; e dalla battaglia di Benevento (1266) in poi il Ducato di Spoleto e la Marca d’Ancona fecero parte definitivamente dello Stato della Chiesa, mentre la dinastia angioina riconosceva sul Regno di Sicilia l’alta sovranità della Santa Sede. Nel 1278, per rinuncia imperiale, anche la Romagna era riconosciuta parte del Patrimonio.
Lo Stato della Chiesa costituiva all’inizio del 14° sec. uno dei più vasti e complessi Stati italiani, sempre più sottomesso anche all’interno all’autorità ecclesiastica, che dal collegio cardinalizio, vera oligarchia, esprimeva i suoi vari funzionari. Era diviso nelle province di Campagna, Marittima, Patrimonio, Sabina, Ducato di Spoleto, Marca d’Ancona, Romagna, e nei vicariati di Massa Trabaria, Terra Molfa, Bologna. Specie nelle nuove province l’autorità del governo pontificio non si affermava se non per atto volontario dei Comuni o per sottomissione, spesso solo formale, dei tiranni locali (come in Romagna). Alcune erano governate ancora da comites, altre (le più recenti; in seguito tutte) da presidi o rettori di nomina pontificia (per lo più ecclesiastici) con piena giurisdizione, assistiti da giudici e da consiglieri. Il Comune di Roma, sottomessosi al tempo di Innocenzo III, che aveva avocato a sé la nomina del senatore unico, e ribellatosi poi ancora eleggendo senatori stranieri, sull’esempio del podestà degli altri Comuni, nel periodo di Bonifacio VIII aveva rinnovato la sua sottomissione al papato.
Il periodo avignonese (1308-77) segnò per lo Stato della Chiesa un punto d’arresto. In Roma si ebbero rivoluzioni popolari e reazioni aristocratiche, nella storia delle quali s’inserì la restaurazione della repubblica romana con Cola di Rienzo; nelle province, ogni Comune s’amministrava a suo modo, lasciando autorità puramente formale ai rettori o vicari della Santa Sede. Intanto gli Orsini, i Colonna, i Savelli, i Frangipane, i Caetani dominavano nell’Agro; i Prefetti di Vico su Civitavecchia, Viterbo, Corneto, Terni; i da Varano su Camerino; i Montefeltro su Urbino e Cagli; i Malatesta su Rimini, Pesaro, Fermo, Senigallia, Ancona, Ascoli; gli Ordelaffi su Forlì e Cesena; i Manfredi su Faenza; gli Alidosi su Imola; i da Polenta su Ravenna e Cervia; gli Estensi (1317) su Ferrara; i Pepoli, poi i Visconti, su Bologna; in Perugia, Todi, Assisi si alternavano regimi signorili e comunali.
Infine il cardinale Egidio Albornoz, con la sua azione politica e militare equilibrata ed energica (1353-1357; 1358-67) riportò in gran parte dello Stato la disciplina e l’ordine: le Constitutiones aegidianae, che riordinarono amministrativamente lo Stato, rimarranno in vigore nel complesso fino al 1816. La necessità per i Romani di riavere la corte pontificia rese possibile a Urbano V (1367) di riformare il Comune, che da allora vide decadere la sua autonomia. Ma le ribellioni e soprattutto la guerra degli Otto Santi (1375-78), condotta da Fiorentini e Milanesi ai danni dello Stato pontificio, resero vana l’opera dell’Albornoz.
Il ritorno a Roma di Gregorio XI non servì a domare la crisi; di più, le complesse e tumultuose vicende dell’elezione del successore (Urbano VI) provocarono la maggiore crisi dello scisma d’Occidente. Lo Stato della Chiesa fu allora in pericolo: nel 1401-02 per opera di Gian Galeazzo Visconti, che stava per conquistare Firenze e aprirsi la via verso Roma (era già signore di Perugia, Assisi, Spoleto); e nel 1408-09 e 1411-13 per opera di Ladislao di Durazzo, che si fece dare il titolo di protettore di Roma, poi di signore, e occupò Roma effettivamente, muovendo di lì contro Firenze. Morto improvvisamente (1402) il Visconti, e prima sconfitto e poi morto Ladislao, rimaneva la minaccia di condottieri come Braccio da Montone. Martino V però, dopo una prima composizione dello scisma a Costanza nel 1418, poté ripristinare la sovranità pontificia di Roma con l’aiuto di Muzio Attendolo Sforza, sopprimendo ogni residuo di autonoma vita municipale. La rivolta contro Eugenio IV nel 1436 e il moto di S. Porcari (1453) contro Niccolò V non cambiarono la situazione. Alla sottomissione di Roma seguì quella delle province (completata nel 1426).
Lo Stato della Chiesa, superata la crisi del Concilio di Basilea, che aveva spinto di nuovo i signori italiani a impadronirsi delle sue terre, si ricostituì quasi intatto (la perdita maggiore fu quella di Ravenna e Cervia, dal 1441 ai Veneziani). Divenne così dal 1454 al 1494 uno dei cinque potentati su cui si fondava la ‘politica di equilibrio’ di quel periodo: il secondo per superficie e popolazione, forse l’unico che bastava a sé stesso economicamente (per l’agricoltura), ma debolissimo per l’indipendenza di fatto dei Baglioni di Perugia, dei Bentivoglio di Bologna, dei Malatesta di Rimini, dei Manfredi di Imola, Forlì, Faenza, degli Sforza a Pesaro, dei da Varano a Camerino, tutti nominalmente vicari pontifici; mentre i titoli ducali per Urbino ai Montefeltro e per Ferrara agli Estensi avevano sancito anche giuridicamente una vera indipendenza. Agli ostacoli frapposti da queste forme particolaristiche, feudali e comunali, i papi non poterono reagire, nel loro sforzo di organizzare monarchicamente lo Stato, se non con il ‘grande nepotismo’ eretto a sistema di governo. Ma la creazione delle nuove signorie dinastiche a favore dei figli o nipoti dei pontefici finiva per accentuare la disgregazione, contro la quale il nepotismo stesso era così utile strumento. Con Cesare Borgia sembrò fosse possibile la formazione di una monarchia assoluta nello Stato pontificio. Giulio II riprese questa politica accentratrice, ma in nome dello Stato della Chiesa e non per una dinastia: la partecipazione (per un trentennio) dello Stato della Chiesa alla grande politica europea e il tentativo, iniziato proprio sotto di lui, di prendere la direttiva della politica italiana, condussero però al fallimento, culminato col sacco di Roma del 1527.
In seguito il bisogno di pace e di accordo con la Santa Sede da parte di Carlo V e la prontezza di Clemente VII a concedergli, con l’incoronazione a re d’Italia e imperatore romano (Bologna, 1530), il riconoscimento della supremazia spagnola in Italia in cambio della restaurazione dei Medici a Firenze, permise allo Stato della Chiesa di uscire dalla sconfitta pressoché indenne (Parma e Piacenza restarono alla Chiesa fin quando Paolo III Farnese ne fece un ducato indipendente per Pier Luigi Farnese; Venezia restituì Ravenna e Cervia, mentre Modena e Reggio pervennero agli Estensi). Da quel momento lo Stato della Chiesa entrò nel novero dei piccoli Stati italiani viventi all’ombra del predominio spagnolo.
Vani furono i tentativi antispagnoli di Clemente VII e di Paolo III, poi di Paolo IV Carafa: nella seconda metà del 16° sec. e durante il 17° la politica della Santa Sede fu legata alle vicende della restaurazione cattolica in Europa, distaccata dagli interessi particolari del Patrimonio di S. Pietro. Dai trattati di Vestfalia (1648) i legati di Alessandro VII rimasero esclusi, data la presenza di clausole favorevoli a calvinisti e luterani. Nello Stato della Chiesa trovarono applicazione, naturalmente, le direttive più rigide dell’azione controriformista. Delle antiche aspirazioni territoriali rimase solo la tendenza a richiamare a ogni occasione sotto la diretta sovranità pontificia i territori giuridicamente spettanti al Patrimonio di S. Pietro (Ferrara nel 1598 allo spegnersi della linea legittima degli Estensi; Urbino nel 1631, all’estinzione dei Della Rovere; il Ducato di Castro nel 1649).
All’interno invece l’energica politica di Giulio II, accentratrice e limitatrice delle autonomie e dei privilegi dei feudatari e delle città, fu ripresa, dopo Paolo III, da Sisto V (1585-90), che represse spietatamente l’anarchia brigantesca dei nobili e riorganizzò l’amministrazione (con le 15 commissioni cardinalizie o sacre congregazioni per gli affari spirituali e temporali, del 1588), e da Clemente VIII, che istituì la Congregazione del buon governo (1592) per la sorveglianza e il controllo sulle materie patrimoniali dei Comuni immediatamente soggetti, la cui competenza fu poi estesa da Innocenzo XI, nel 1704, alle comunità baronali. Al ‘grande nepotismo’ si era venuto sostituendo però il ‘piccolo nepotismo’, su base non più politica e territoriale ma fondiaria e finanziaria; da esso sorsero le nuove famiglie dell’aristocrazia romana (Barberini, Pamphili, Chigi, Rospigliosi, Altieri, Odescalchi, Ottobuoni, Pignatelli): solo Innocenzo XI pose fine a questo indirizzo, che aveva esaurito l’erario.
Durante il 18° sec. lo Stato della Chiesa fu oggetto di ripetute rappresaglie da parte di altri Stati, allo scopo di ottenere dai pontefici concessioni alle riforme dell’imperante giurisdizionalismo. Intanto il cardinale G. Alberoni terminò l’opera di unificazione amministrativa delle province: riorganizzazione in senso assolutistico, che, se condusse al definitivo trionfo della sovranità pontificia sugli ultimi avanzi delle vecchie autonomie, non rafforzò per nulla lo Stato, il quale mostrò la sua organica incapacità di resistenza al primo urto con la Francia rivoluzionaria. Col trattato di Tolentino (1797) si ebbero le prime mutilazioni dello Stato della Chiesa col consenso del pontefice (cessione delle Legazioni, rinuncia ad Avignone e al Contado Venassino). Il 15 febbraio 1798 una sollevazione popolare dichiarò la fine del potere temporale dei pontefici e proclamò la Repubblica Romana, estesa poi alle Marche e all’Umbria. Seguirono la restaurazione del settembre 1799, poi la pace di Lunéville (18 febbraio 1801), che riconfermava la sovranità pontificia sul Patrimonio, meno le Legazioni: infine l’annessione delle Marche al Regno Italico nel 1808. Il 17 maggio 1809 Napoleone abolì del tutto lo Stato della Chiesa senza suscitare straordinarie reazioni da parte degli Stati cattolici.
La Restaurazione riportò anche i pontefici sul trono dello Stato della Chiesa, mutilato del Contado Venassino, di Avignone e del Ferrarese (alla sinistra del Po); mentre l’Austria si riservò il diritto di tenere proprie guarnigioni a Ferrara e Comacchio. Il governo così restaurato si mostrò del tutto impotente dal punto di vista finanziario e da quello militare, e seguì un indirizzo grettamente reazionario, che finì con l’alienargli l’animo degli elementi anche più moderati della popolazione, come si vide nel moto del 1831. Deluse le aspettative di rinnovamento suscitate dai primi provvedimenti di Pio IX (1846-48), lo Stato P. continuò a promuovere una politica rigidamente conservatrice, che accentuò i suoi aspetti autoritari soprattutto dopo il crollo della Repubblica romana (1849).
Ma oramai premeva il moto unitario italiano. Con la proclamazione dell’annessione di Roma al Regno d’Italia (6 ottobre 1870), lo Stato della Chiesa cessò di fatto di esistere; le rappresentanze diplomatiche che pur rimasero significavano, più che il disconoscimento del fatto compiuto, il riconoscimento dell’altissima funzione internazionale del Capo della Chiesa. Solo nel 1929, con la stipula dei Patti lateranensi, veniva riconosciuta dal governo italiano la costituzione dello Stato della Città del Vaticano.