È chiamato legislazione a. l’insieme di regole e azioni di vigilanza volto a impedire comportamenti e strategie delle imprese, che possano condurre a posizioni di monopolio o accordi collusivi a danno dei consumatori, che impediscano l’ingresso sul mercato di imprese concorrenti, o in altro modo distorcano la possibilità di libera concorrenza sui prezzi, sulla qualità dei prodotti, sulle innovazioni tecnologiche (➔ concorrenza).
Il trust è un istituto giuridico della common law inglese, che consente di attribuire fiduciariamente ad altri l’esercizio dei propri diritti. A esso fecero ricorso negli Stati Uniti di fine Ottocento le grandi imprese, uscite vincitrici dalle contese concorrenziali degli anni precedenti. I loro amministratori si attribuirono il diritto di votare nei rispettivi consigli societari, garantendosi in tal modo decisioni uniformi. La nascita di grandi agglomerati di potere economico spaventò i piccoli produttori e i loro rappresentanti politici. Nel 1890 il Congresso approvò lo Sherman act, subito chiamato legge a., secondo il quale la libera contrattazione fra venditori e acquirenti non doveva essere alterata da intese tra le imprese (quali quelle fra i venditori sulle quantità da offrire o sui prezzi da praticare, o sui mercati su cui vendere), né da condotte unilaterali precostituite ai fini del controllo sul mercato (quali il rifiuto di rifornire questo o quel negozio da parte di un grande fornitore). L’a. statunitense nasceva con il duplice obiettivo di garantire l’efficienza del sistema economico e la democraticità della società, nella convinzione, allora radicata, che il modello ideale fosse quello vagheggiato a suo tempo da T. Jefferson: una società democratica caratterizzata dall’equilibrata interazione di milioni di piccoli produttori.
La legislazione a. e la sua applicazione hanno generato controversie teoriche e in sede giudiziaria, relative all’indice di concentrazione (percentuale del fatturato complessivo del mercato prodotto o commercializzato dalle imprese maggiori), oltre il quale si ritiene che la concorrenza non sia più operante, perché il mercato è dominato da una o poche grandi imprese. Le dispute hanno toccato la definizione del mercato, rilevante per valutare la concentrazione e, quindi, il potere raggiunto dalle grandi imprese, per es. a seguito di fusioni o accordi collusivi sui prezzi. La differenziazione di prodotto e la varietà dei beni sostituibili rendono in molti casi difficile definire quale gamma di prodotti differenziati costituisca di fatto un unico mercato. Inoltre, l’aumento della dimensione d’impresa conduce a guadagni d’efficienza grazie a economie di scala (➔) o di scopo (➔ scopo, economia di) che possono tradursi in un miglioramento di benessere per il consumatore con una maggiore disponibilità di beni nuovi o a minor costo unitario. Gli investimenti per l’innovazione richiedono la concentrazione di risorse finanziarie, disponibili solo a imprese di grandi dimensioni con rilevanti quote di mercato. La concorrenza internazionale impone ai suoi protagonisti grandi dimensioni. Perfino l’innovazione nell’organizzazione industriale o commerciale modifica la concorrenza; l’intesa verticale di esclusiva fra un produttore e un gruppo di dettaglianti, se vincola questi ultimi a rifornirsi da un solo produttore e a seguirne le indicazioni per la rivendita, può consentire di offrire servizi migliori ai clienti (per es., l’assistenza dopo la vendita). L’intesa orizzontale fra i produttori (tradizionalmente la più malvista, e a ragione) potrebbe avere effetti positivi per il consumatore, se volta a concentrare gli investimenti nella ricerca, per lanciare nuovi prodotti che l’impresa singola, di minori dimensioni, non potrebbe realizzare. Non è, perciò, sempre vero che l’efficienza coincide con la frammentazione del mercato tra molte imprese di piccole dimensioni. L’efficienza economica che l’attuale a. difende è quella che risulti benefica per il consumatore, a prescindere dallo spazio che lascia ai piccoli produttori sul mercato. L’a. contemporaneo fa scattare i suoi divieti davanti a soglie più alte di potere economico e concentrazione, purché il mercato resti contendibile per libertà d’accesso e possibilità d’innovazione tecnologica.
La tradizione europea (a eccezione della Gran Bretagna) era diversa da quella statunitense. Sullo sfondo di principi secolari, secondo i quali lo Stato poteva essere agente economico al pari dei privati per attività collegate a interessi pubblici, le economie europee erano segnate da radicato dirigismo (in Francia) e dall’impronta dell’aiuto e della presenza diretta dello Stato nei paesi arrivati in ritardo allo sviluppo industriale (Germania e Italia). A fine Ottocento, la diffusione dei servizi di pubblica utilità comportò in Europa monopoli pubblici, nazionali e locali, per la loro gestione. Le intese fra privati e le concentrazioni, se collimavano con le politiche nazionali, non erano perseguite, ma tutelate, a prescindere dagli effetti sulla concorrenza. L’a. fu trapiantato in Europa nel 1957, con il trattato di Roma istitutivo della Comunità Economica Europea, a tutela della concorrenza fra Stati, ed è stato esteso alla concorrenza interna a ciascuno Stato con successive leggi nazionali: la prima in Germania, sempre nel 1957; le ultime, tra cui quella italiana, nel 1990. La disciplina europea colpisce le intese restrittive (art. 81), gli abusi di posizione dominante (art. 82) e le concentrazioni fra imprese, che eliminano o rendono impossibile la concorrenza nel mercato rilevante (caso quest’ultimo non previsto nel trattato del 1957 e aggiunto con il regolamento comunitario 4064/89/21 dicembre 1989). Essa ha a lungo attribuito alla tutela della concorrenza valore non autonomo, ma strumentale all’integrazione del mercato e destinato a flessibili compromessi con altre politiche (industriale, regionale, sociale) della Comunità. Con gli emendamenti al trattato introdotti a Maastricht nel 1992 la concorrenza è rimasta principio fondamentale, ma affiancata dal principio di coesione. Il controllo della Commissione europea sulle operazioni di concentrazione si applica al di sopra di determinate soglie di fatturato delle imprese coinvolte.
La prima differenza fra a. europeo e statunitense riguarda gli abusi di posizione dominante, posizione in cui si trova l’impresa che ha concorrenti (a differenza del monopolio), ma molto più deboli e incapaci di condizionarne i comportamenti. Arrivare in posizione dominante non è illecito; comporta, però, una speciale responsabilità che rende abusivi comportamenti altrimenti leciti: rifiutare di servire un compratore, fare prezzi diversi a compratori diversi, legare la vendita di un prodotto a quella di un altro. Secondo l’attuale a. statunitense, l’impresa che arriva al monopolio può essere smantellata; accade sempre più di rado, ma è successo all’AT&T, la società telefonica americana, nel 1984. Prima che ci arrivi, possono essere proibiti soltanto i suoi intenzionali tentativi di farlo che rechino danno ai consumatori, non i comportamenti di aggressiva concorrenza, che danneggiano solo concorrenti più deboli. L’Europa non prevede lo smantellamento come sanzione finale ma, grazie alla mai sopita propensione regolatoria, ha recuperato una tutela che era parte dell’originaria cultura della concorrenza statunitense. Differenze di rilievo vengono dall’interazione fra concorrenza e altre finalità comunitarie. Il legame con l’integrazione del mercato ha reso l’a. europeo più rigido di quello degli Stati Uniti, in particolare davanti alle intese verticali fra produttori e rivenditori, che lasciavano spazio alla concorrenza inter-marca, ma non consentivano ai rivenditori la libertà d’acquistare il prodotto da un paese all’altro, contro i principi d’integrazione. L’art. 86 del trattato vieta agli Stati membri misure di tutela delle imprese nazionali (come aiuti ad hoc) che abbiano effetti restrittivi sulla concorrenza a livello europeo. Per converso, sono state esentate dai divieti le intese che, assecondando obiettivi di politica europea regionale o industriale, davano vita, con aiuti pubblici, a imprese comuni in aree depresse, o riducevano in modo concordato la capacità produttiva in eccesso. Non va dimenticata la differenza negli assetti istituzionali. Negli Stati Uniti l’organo che decide è il giudice, che lo fa su azione dei privati, cosa frequente, o dell’apparato predisposto ad hoc (la divisione a. del Ministero della Giustizia), che ha solo compiti investigativi e deve battersi in giudizio. In Europa, l’azione giudiziaria diretta di privati è rara, perché gli organi pubblici d’investigazione a. hanno anche poteri decisori; è contro le loro decisioni, soggette sempre a ricorso, che i privati in genere si rivolgono al giudice. A livello europeo, a decidere è la Commissione di Bruxelles e il ricorso si presenta al Tribunale di prima istanza e, quindi, alla Corte di giustizia. A livello nazionale vi sono autorità, contro le quali si ricorre in taluni paesi (come l’Italia) al giudice amministrativo, in altri al giudice ordinario. L’a. ha provocato in Europa molti cambiamenti. Se radicati monopoli (i telefoni, l’elettricità, o servizi pubblici in esclusiva, come i porti, gli aeroporti, le linee aeree ecc.) sono oggi in fase d’avanzata liberalizzazione, o pienamente liberalizzati con beneficio per gli utenti, lo si deve agli organi comunitari: sia alle loro direttive generali, sia alle loro decisioni su singoli casi a., in cui hanno addirittura configurato come abuso di posizione dominante l’esistenza dei monopoli pubblici, quando questi non fossero in grado di servire la domanda.
L’a. italiana, il cui nome ufficiale è Autorità garante della concorrenza e del mercato, è stata istituita con la l. 287/10 ottobre 1990. È un’autorità collegiale di cinque componenti, nominati dai presidenti della Camera e del Senato e assistiti da uffici, che essa organizza in piena autonomia. Il presidente è scelto tra persone che hanno ricoperto incarichi istituzionali e di notoria indipendenza. I quattro membri sono scelti tra personalità nella magistratura (Consiglio di Stato, Corte dei conti, Corte di cassazione) e nella docenza universitaria (professori ordinari di materie economiche o giuridiche) o tra altre figure di spicco e riconosciuta professionalità con esperienza in ambito economico. L’art. 10 della legge istitutiva sancisce che l’a. italiana operi in autonomia e con indipendenza di giudizio e valutazione. È indipendente dall’esecutivo e non risponde al Parlamento; è sottoposta a sindacato giudiziale, ma non ha natura giudiziaria. La tutela della concorrenza richiede una complessa regolamentazione e l’esperienza italiana è stata innovativa anche per le competenze affidate all’Autorità (➔ Autorità indipendenti). La legge del 1990 definisce tre funzioni di tutela assegnate all’Autorità: colpire le intese restrittive della concorrenza tra imprese che colludono; impedire gli abusi di posizione dominante all’interno del mercato nazionale, con effetti negativi per i consumatori o limitazione alla libertà d’ingresso d’altre imprese sul mercato (con sanzioni che possono arrivare al 10% del fatturato, ma non hanno mai natura penale); controllare le operazioni di concentrazione tra imprese, quali le fusioni, per valutare se comportino limitazione della concorrenza o rafforzino eccessivamente una posizione dominante sul mercato. Le intese restrittive della concorrenza non sono sanzionate, se temporanee e tali da produrre effetti a vantaggio dei consumatori, migliorando l’offerta disponibile sul mercato o rafforzando la posizione competitiva delle imprese sul mercato internazionale. Analogamente, l’elevata quota di mercato raggiunta da un’impresa non configura, di per sé, abuso di posizione dominante. L’abuso è sanzionato quando le imprese, che con il loro fatturato coprono alte quote di mercato, sfruttano la posizione dominante per praticare prezzi sfavorevoli agli acquirenti, o impedire l’ingresso di nuovi concorrenti, o bloccare il progresso tecnologico. In sintesi, la legislazione a. italiana riconosce i vantaggi d’efficienza, che risultano dalle economie di scala e di scopo, quando sono sfruttati a vantaggio del consumatore. Infine, l’Autorità segnala al governo e al Parlamento (con atti sprovvisti di effetti vincolanti) leggi, regolamenti, iniziative legislative, che distorcono la concorrenza. L’Autorità si è adoperata per modificare principi giuridici, convinzioni collettive, etiche, professionali ostili alla concorrenza e insensibili ai suoi benefici. I compiti dell’Autorità garante nelle funzioni di vigilanza di cui si è detto ormai si estendono al settore bancario, mentre fino al 2005 la vigilanza sulla concorrenza era di competenza della Banca d’Italia. La vigilanza prevede ancora un’importante eccezione: le imprese che per legge gestiscono servizi di rilevante interesse pubblico, anche in condizioni di monopolio. Ne sono escluse pertanto le cosiddette public utilities. Dopo il 1990, le funzioni dell’Autorità sono state ampliate per includervi, con il d.l. 74/25 gennaio 1992, la vigilanza e le sanzioni sulla pubblicità ingannevole, che potrebbe recare danno ai consumatori e avere effetti distorsivi sulla concorrenza. Inoltre, con la l. 215/20 luglio 2004, in materia di conflitto d’interessi, l’Autorità assolve il compito ulteriore di accertare le situazioni d’incompatibilità, che impediscono di ricoprire cariche a seguito di conflitto d’interessi; deve vigilare sui divieti conseguenti e promuovere, in caso d’inosservanza, la relativa sospensione da incarichi o ruoli ricoperti in contrasto con la legislazione in vigore sulla materia.