Dispositivo elettronico a semiconduttori che permette il controllo di un segnale elettrico di uscita da parte di un segnale di ingresso; in quasi tutte le applicazioni ha vantaggiosamente sostituito i tubi termoelettronici. I t. sono costituiti da un’opportuna disposizione di regioni semiconduttrici diversamente drogate (➔ semiconduttore) a contatto fra loro e basano il loro funzionamento sulla diffusione preferenziale delle cariche di conduzione attraverso le barriere di potenziale presenti in corrispondenza delle giunzioni (➔ giunzione) tra le regioni medesime.
Il primo t., il t. a contatti puntiformi, fu realizzato nel 1947 nei Bell telephone laboratories; di poco successiva (1949) fu la realizzazione del t. a giunzione; per tali invenzioni J. Bardeen, W.H. Brattain, W. Shockley ebbero nel 1956 il premio Nobel per la fisica. Difficoltà tecnologiche di produzione economica su scala industriale e l’impossibilità di ottenere ridotti scostamenti tra le caratteristiche di funzionamento per componenti della stessa serie hanno impedito lo sviluppo del t. a contatti puntiformi, ormai di interesse puramente storico. Tali t. erano costituiti da una sottile lastrina di germanio di tipo n, detta base, saldata a un supporto metallico che fungeva da elettrodo e sulla quale appoggiavano due sottilissimi fili d’oro (emettitore e collettore): in virtù di particolari fenomeni che si verificavano nei punti di contatto, polarizzando opportunamente i due elettrodi rispetto alla base si ottenevano diffusioni di cariche tra base e collettore più intense (da due a tre volte) di quelle tra emettitore e base. A quei tempi tale dispositivo fu schematicamente visto come un resistore la cui resistenza dipendeva dalle condizioni di transito di cariche nelle regioni interelettrodiche (di qui la denominazione ingl. transistor).
Di diffusissimo impiego per le più svariate applicazioni sono invece i t. a giunzione, normalmente indicati con il nome di t. bipolari, i quali hanno costituito per diversi anni l’unica categoria esistente di elemento attivo allo stato solido; solo intorno al 1960 cominciò la produzione industriale di t. a effetto di campo, la cui realizzazione pratica ha richiesto la preventiva soluzione di delicati problemi tecnologici. Il principio di funzionamento di questi t. era stato già sviluppato teoricamente e brevettato (J.E. Lilienfield) nel 1933, molto prima dello studio teorico dei t. bipolari. Se si escludono particolari applicazioni di alta potenza e audio di alta fedeltà, si può dire che i t. hanno sostituito completamente i tubi termoelettronici, rispetto ai quali presentano minore fragilità, vita enormemente più lunga, valori delle tensioni di alimentazione assai più bassi e dimensioni d’ingombro drasticamente ridotte. Consentono inoltre la realizzazione di dispositivi monolitici (circuiti integrati) contenenti in un piccolo volume milioni di componenti. Il materiale più usato per la fabbricazione dei t. è il silicio, le cui proprietà sono ben note e la cui tecnologia è consolidata. Le straordinarie proprietà elettriche e chimico-fisiche del silicio e dell’ossido di silicio, che viene accresciuto termicamente sulla sua superficie, consentono infatti la fabbricazione di circuiti monolitici a larghissima scala di integrazione, che possono contenere milioni di transistori.
La struttura dei t. varia in modo notevole a seconda degli specifici impieghi cui sono destinati, non solo nei riguardi della conformazione della parte attiva (il cosiddetto cristallo), ma anche in riferimento all’involucro protettivo esterno, atto ad assicurare una sufficiente robustezza meccanica ed eventualmente un buon contatto termico con l’esterno. I t. a giunzione e a effetto di campo sono quelli di gran lunga più diffusi e sono designati, rispettivamente, con le sigle BJT (bipolar junction transistor) e FET (field-effect transistor). Nel primo caso, l’effetto di amplificazione risulta dall’interazione di due giunzioni p-n strettamente ravvicinate, la prima delle quali è polarizzata direttamente, mentre la seconda è polarizzata inversamente. Nel secondo caso l’azione di controllo è affidata alla modulazione della geometria di un canale conduttivo che può essere esercitata da una giunzione p-n in polarizzazione inversa (JFET, junction field-effect transistor), da una giunzione metallo-semiconduttore (MESFET, metal-semiconductor field-effect transistor), o da un condensatore metallo-ossido-semiconduttore (MOSFET, metal-oxide-semiconductor field-effect transistor).
Sono così denominati perché utilizzano nella conduzione portatori di carica elettrica di entrambe le polarità (elettroni, negativi, e lacune, positive). Possono pensarsi ottenuti (nella versione a omogiunzione) da una piastrina di materiale semiconduttore nella quale si succedono tre regioni diversamente drogate (fig. 1): in relazione alla natura dei droganti nelle tre regioni anzidette, il t. si suole designare n-p-n o p-n-p. Per ragioni legate alle rispettive modalità di funzionamento, le regioni anzidette sono chiamate emettitore, base e collettore. Ciascuna di esse è resa elettricamente accessibile a mezzo di un contatto metallico. Il funzionamento del t. bipolare è basato sull’interazione fra le giunzioni di emettitore e di collettore che, nella regione attiva del dispositivo, sono fortemente ravvicinate, essendo l’ampiezza della base appena qualche decimo di micrometro. Tale interazione rende il comportamento del t. profondamente diverso da quello di una coppia di diodi a giunzione contrapposti, a cui si richiama la struttura del dispositivo, e presiede alla sua più importante proprietà elettrica: la capacità di amplificazione. Nella condizione normale di funzionamento, ottenuta mediante opportune tensioni continue di polarizzazione, la giunzione emettitore-base è polarizzata direttamente, mentre la giunzione base-collettore è polarizzata inversamente. In tali condizioni, tra emettitore e base fluisce una corrente (diretta), con elevata intensità, dovuta alla diffusione delle cariche maggioritarie favorite dal campo di giunzione, mentre nel circuito base-collettore circola una corrente (inversa) di intensità notevolmente più debole, dovuta alla diffusione delle sole cariche minoritarie attraverso la relativa giunzione.
Con riferimento al t. p-n-p (valutazioni analoghe sono valide, con le opportune varianti, per i t. n-p-n) la corrente nella giunzione di emettitore è praticamente costituita da sole lacune iniettate dall’emettitore nella base, nell’ipotesi che questa sia drogata molto debolmente; tali cariche hanno una limitatissima probabilità di neutralizzazione con i pochi elettroni ivi esistenti e, se la base è molto sottile, attraversano anche la giunzione di collettore, il cui campo di barriera ne favorisce la diffusione (le lacune iniettate nella base risultano in essa cariche minoritarie). In conclusione, l’intensità della corrente di collettore IC è dovuta alla contemporanea presenza di due flussi di cariche, quello proveniente dall’emettitore e quello relativo al solo circuito base-collettore:
ove IE è l’intensità della corrente di emettitore, α è una costante di proporzionalità di poco inferiore a 1 (di solito intorno a 0,99) per tener conto delle ricombinazioni nella base, ICB0 è l’intensità della corrente inversa nella giunzione di collettore a emettitore staccato (con simbolismo diffuso, le prime due lettere a pedice indicano gli elettrodi cui si riferisce la grandezza elettrica, mentre lo zero specifica il distacco dell’elettrodo non indicato). La [1] è relativa alla disposizione circuitale con base comune, o base a massa, in cui il segnale d’ingresso è applicato all’emettitore e il segnale d’uscita è prelevato dal collettore; per quanto le due intensità di corrente siano dello stesso ordine di grandezza, la resistenza del circuito d’uscita (comprendente la giunzione inversa) è notevolmente più alta di quella del circuito d’entrata (comprendente la giunzione diretta), per cui sono presenti sul collettore potenze elettriche di valore più alto di quelle immesse nell’emettitore. Di impiego più generale, in quanto consente anche l’amplificazione della corrente, è la disposizione circuitale con emettitore comune, o emettitore a massa, in cui il segnale di ingresso è applicato alla base anziché all’emettitore; tenendo conto che in ogni caso deve risultare IE=IB+IC, dalla [1] si ottiene:
ove IB è l’intensità della corrente di base, β=α/(1−α) è una costante adimensionale maggiore di 100, mentre ICE0=(α+1)ICB0 rappresenta l’intensità di corrente nel t. a base disconnessa. Agli effetti pratici, con tensioni di polarizzazione corrette, ICE0 risulta trascurabile (specie nei t. a silicio, in cui le correnti inverse nelle giunzioni sono di intensità molto ridotta) e il valore di β coincide con hFE=IC/IB, guadagno statico di corrente. Nella disposizione circuitale con collettore comune, o collettore a massa, l’elettrodo d’ingresso è la base e quello d’uscita l’emettitore; anche in questo caso si ha amplificazione di corrente.
Dal punto di vista elettrico il t. è individuato da relazioni funzionali,
tra le grandezze elettriche IB, IC, VBE, VCE (queste ultime sono rispettivamente la tensione di base e la tensione di collettore, entrambe riferite all’emettitore), generalmente fornite sotto forma di tabelle o di diagrammi, detti curve caratteristiche statiche. L’andamento della caratteristica di base IB(VBE) corrisponde a quella diretta di un diodo a semiconduttori (➔ diodo), con influenza molto ridotta della tensione di collettore. Nella caratteristica di collettore o d’uscita (fig. 2), IC(VCE), i punti di funzionamento del t. come elemento lineare devono interessare la regione centrale a tratti rettilinei pressoché paralleli ed equidistanti (zona attiva), ove risulta soddisfatta la [2]; il tratto iniziale comune (per VCE≃0) a elevata pendenza corrisponde alla zona di saturazione, mentre la caratteristica IB=0 corrisponde alla zona di interdizione (t. impiegato come elemento di commutazione in circuiti digitali); i tratti finali pressoché verticali sono dovuti a conduzione per scarica a valanga in corrispondenza della tensione di rottura o, all’inglese, tensione di breakdown.
Nell’impiego del t. con segnali variabili nel tempo di limitata ampiezza interessano le relazioni esistenti tra le variazioni delle grandezze elettriche; esplicitando VBE e IC dal sistema [3] e differenziando si ottiene:
dove, con simbolismo diffuso, si sono indicati i valori istantanei delle grandezze che variano nel tempo (i, v) con lettere minuscole e con i simboli h i valori delle derivate parziali. Per i simboli degli elettrodi posti ai pedici si utilizzano le lettere minuscole se sono riferiti ai differenziali delle variabili; le lettere maiuscole sono riservate sia alle grandezze istantanee complessive, comprensive quindi di eventuali componenti continue, sia a grandezze che indicano i valori medi e continui. Nell’ipotesi di linearità, il sistema [4] risulta valido anche per variazioni finite, consentendo la sostituzione del t. con il suo circuito equivalente differenziale (fig. 3); in tal caso vbe, ic, ib, vce rappresentano i valori delle variazioni delle grandezze elettriche e i parametri h le costanti di proporzionalità tra le stesse. A causa delle loro differenti dimensioni fisiche, le quattro costanti h sono chiamate parametri ibridi del t.; le lettere a pedice individuano la posizione delle grandezze interessate nel quadripolo equivalente (i: input, ingresso; r: reverse, inverso; f: forward, diretto; o: output, uscita) e l’elettrodo a massa nella disposizione circuitale (e: emitter, emettitore). Con riferimento alla fig. 3 si definisce hie impedenza d’ingresso, hre rapporto inverso di tensione, hfe guadagno dinamico di corrente e hoe ammettenza d’uscita. In maniera analoga possono essere definiti i parametri ibridi anche per le altre disposizioni; in altri casi il funzionamento del t. è individuato tramite i valori dei parametri ammettenza (Y) o dei parametri impedenza (Z), derivati dalla scelta differente della coppia di variabili indipendenti (rispettivamente le tensioni o le intensità di corrente). Il guadagno dinamico di corrente hfe rimane sensibilmente costante all’aumentare della frequenza fino a un determinato valore ft, detto frequenza di taglio del t., oltre il quale decresce in modo abbastanza rapido; la frequenza fT per la quale hfe assume valore unitario è detta frequenza di transizione. Poiché le due frequenze caratteristiche del t. sono legate dalla relazione fT=hfeft, dove il valore di hfe è quello costante antecedente alla frequenza di taglio, spesso la frequenza di transizione è detta prodotto guadagno di corrente per larghezza di banda. Per caratterizzare la rapidità di t. impiegati come elementi di commutazione in circuiti digitali si è soliti fornire, invece dei valori delle due frequenze citate, il tempo di apertura e il tempo di chiusura, cioè gli intervalli di tempo in cui essi passano dalla saturazione all’interdizione e viceversa.
Utilizzando il t. come amplificatore di segnali (➔ amplificatore) è necessaria la presenza di una resistenza RC (o più in generale di una impedenza) di carico, con valore opportuno, posta tra il collettore e la sorgente della tensione di alimentazione EC (fig. 4A): i punti di funzionamento del t. appartengono alla retta di carico r (fig. 4B), rappresentazione grafica nel piano delle caratteristiche di collettore della legge di Ohm (EC−VCE=RCIC) relativa alla resistenza di carico. Il corretto impiego del t. impone che r sia totalmente interna all’iperbole di massima dissipazione di potenza, PD=VCEIC, ammissibile per la temperatura ambiente esistente. La polarizzazione degli elettrodi di collettore e di base non è normalmente effettuata mediante due alimentazioni separate ma in modo automatico, utilizzandone una sola. In fig. 4C è riportato lo schema circuitale di un amplificatore in cui è impiegata una coppia di resistori R1, R2, formanti un partitore di tensione, per la polarizzazione della base; il resistore RE dà luogo a una notevole reazione negativa tra circuito di uscita e circuito di ingresso per la stabilizzazione termica; il condensatore CE provvede a cortocircuitare RE per i segnali variabili da amplificare. In sintesi, il sistema di stabilizzazione indicato funziona nel seguente modo: se, per una causa qualunque e non solo termica, la corrente di collettore tende ad aumentare in modo lento rispetto al suo valore di riposo (ic=0), l’aumento di caduta di potenziale su RE riduce la tensione di base e di conseguenza il valore di IB, che, riflettendosi amplificata sul collettore, riporta la IC al valore primitivo.
Sono dispositivi unipolari in cui la conduzione è affidata prevalentemente a un solo tipo di portatore di carica elettrica. Di struttura concettualmente molto semplice, sono costituiti da un semiconduttore estrinseco di forma opportuna la cui conducibilità tra due regioni periferiche appositamente create può essere modificata per effetto del potenziale applicato a un elettrodo di controllo, posto in corrispondenza della regione centrale, dove determina una strozzatura indicata con il nome di canale. Sono così possibili due diversi tipi di FET, tra loro corrispondenti, indicati con i nomi di FET a canale n e di FET a canale p, a seconda del drogaggio del semiconduttore estrinseco impiegato; per tali t. è molto spesso utilizzata la nomenclatura degli elettrodi in lingua inglese: le due regioni periferiche, a seconda della funzione svolta, sono chiamate source o sorgente e drain o pozzo, l’elettrodo metallico è detto gate o porta. A differenza di quanto accade nei BJT, il gate non interrompe la continuità tra source e drain, per cui la conduzione è dovuta alle sole cariche maggioritarie del canale (elettroni liberi per FET a canale n; lacune per FET a canale p). A seconda che l’elettrodo di controllo sia o meno in contatto con un’apposita regione creata nel semiconduttore con drogaggio di tipo opposto al canale (anch’essa detta gate), si hanno i FET a giunzione (JFET) e i FET a porta isolata (o a gate isolato, IGFET). Tra questi ultimi il tipo più diffuso è costituito dai MOSFET o, semplicemente, MOS, il cui gate è separato dal canale mediante un sottilissimo strato di SiO2. A loro volta i MOS sono realizzati in due versioni differenti, a riempimento e a svuotamento.
Nei JFET (fig. 5) la regione di gate è drogata molto più intensamente del sottostante canale; lo strato di barriera esistente in corrispondenza della giunzione si estende quindi in prevalenza nell’interno del canale e limita il flusso della corrente tra source e drain dovuta alla tensione di drain VDS (negativa per i FET a canale p, positiva per quelli a canale n). L’applicazione di una polarizzazione inversa tra gate e source (tensione di gate VGS, con segno opposto a VDS) aumenta lo spessore dello strato di barriera; ciò determina un incremento di resistenza del canale e una diminuzione dell’intensità di corrente di drain, ID. Lo spessore della zona di svuotamento non è costante lungo il canale ma determina una strozzatura dal lato del drain, dove tra i punti opposti della giunzione è presente una tensione più elevata. La dimensione della sezione di gola dipende dalla coppia di valori VGS e VDS: a ogni valore di tensione di gate corrisponde un determinato valore di tensione di drain che determina la chiusura completa del canale (tensione di pinch-off). Aumentando VDS oltre tale valore, la resistenza del canale aumenta molto rapidamente, in modo quasi proporzionale a VDS, per cui l’intensità della corrente di drain rimane praticamente costante. Ciò trova un riscontro nella caratteristica di drain del JFET (fig. 6), in cui sono distinguibili due differenti zone: la prima (a) a resistenza costante, nella quale il componente funziona da resistore controllato in tensione tramite VGS (per tale motivo è anche indicato in tali condizioni di impiego con la sigla VCR, voltage controlled resistor), la seconda (b) a intensità di corrente costante, in cui il t. è effettivamente impiegato come elemento attivo, con ID comandata dalla tensione inversa VGS. L’assorbimento di corrente in ingresso, dovuto alla corrente inversa nella giunzione gate-source è estremamente ridotto; ciò riduce in pratica a tre il numero delle grandezze elettriche da prendere in considerazione (VGS, VDS, ID). Sviluppi analoghi a quelli svolti per i BJT nell’ipotesi di segnali variabili interessanti la zona lineare di funzionamento del t. portano alla individuazione di circuiti differenziali serie e parallelo dei JFET, del tutto equivalenti tra loro e impiegabili in alternativa secondo l’opportunità, retti rispettivamente dalle equazioni vds=−μvgs+rdid, id=gmvgs+vds/rd, dove la costante adimensionale μ è il coefficiente di amplificazione di tensione (tipicamente intorno al migliaio); rd la resistenza differenziale di drain e gm la transconduttanza. I tre parametri non sono tra loro indipendenti risultando, come in un triodo, μ=rdgm. Alternativamente, possono essere definiti, tenendo conto anche dell’intensità della corrente di gate Ig, anche i parametri ibridi, ammettenza e impedenza dei JFET in maniera del tutto corrispondente a quanto fatto per i BJT. Per applicazioni ad alta frequenza il silicio, generalmente impiegato per realizzare i JFET, è rimpiazzato dall’arseniuro di gallio o dal fosfuro di indio e il t. viene realizzato con giunzioni Schottky metallo-semiconduttore (MESFET); il principio di funzionamento rimane lo stesso, ma la struttura dei MESFET risulta semplificata.
Nei FET a porta isolata la polarizzazione dell’elettrodo di gate controlla non la dimensione efficace del canale di conduzione tra source e drain, bensì la concentrazione efficace dei portatori di carica elettrica in questo canale. Tale controllo è basato su un fenomeno di induzione elettrostatica tra l’elettrodo metallico di gate e la sottostante superficie di semiconduttore, separati da un sottile strato isolante (fig. 7). Per la presenza di una struttura metallo-isolante-semiconduttore questi t. vengono indicati con la sigla MISFET (metal-insulator-semiconductor field effect transistor). Quando ci si riferisce ai t. basati sul silicio e sul suo ossido (come isolante) si usa la sigla MOSFET. In quelli a riempimento il gate è separato dal semiconduttore da un sottilissimo strato di SiO2 e le due regioni di source e di drain sono isolate tra loro mediante il substrato di tipo opposto (fig. 7); trascurando la debole corrente inversa, non è possibile alcuna conduzione nel t., anche in presenza di VDS, fintanto che non sia applicata al gate una opportuna polarizzazione che crei, per induzione elettrostatica nel substrato, cariche libere dello stesso segno di quelle maggioritarie del source e del drain. Esiste quindi un valore di soglia di VGS al di sotto della quale il componente è praticamente interdetto (fig. 8); per valori superiori viceversa si ha il ‘riempimento’ del canale e il MOS si comporta in modo simile a un JFET, rispetto al quale presenta una resistenza d’ingresso ancora maggiore dovuta alla presenza dello strato isolante. Nei MOSFET a svuotamento il canale tra source e drain è preformato nella zona sottostante l’elettrodo di gate (fig. 9), per cui avviene la conduzione del t. anche per VGS=0; inoltre la polarità del gate può essere di entrambi i segni. In particolare, per MOS a canale n, la polarizzazione positiva del gate dà luogo per induzione ad allargamento del canale e a diminuzione della resistenza di conduzione, mentre il contrario avviene per polarizzazione negativa; esiste un valore critico di VGS, negativo, in corrispondenza del quale il canale scompare del tutto e si ha l’interdizione del MOSFET. Per VGS superiore a tale valore esiste un valore della tensione corrispondente alla strozzatura del canale dal lato del drain, il quale separa la zona di funzionamento a resistenza costante da quella a corrente costante, in cui sono tipicamente compresi i punti di funzionamento del t. come elemento attivo negli amplificatori di tensione. Il MOSFET è il t. più importante per l’elettronica integrata su larghissima scala grazie alla stabilità e affidabilità di questi dispositivi, all’elevatissima impedenza d’ingresso, al consumo di energia elettrica estremamente basso, alle alte rese dei processi di fabbricazione, alla facilità di miniaturizzazione.
La realizzazione dei t. utilizza processi costruttivi molto complessi che hanno subito una profonda evoluzione nel corso degli anni. Tale evoluzione ha permesso sia di realizzare t. con caratteristiche più evolute sia di ottenere dispositivi complessi, propri della microelettronica, contenenti nel loro interno sistemi circuitali a elevata integrazione, chiamati per questo motivo circuiti integrati. In generale, i processi costruttivi utilizzati per realizzare i circuiti integrati possono essere utilizzati anche per realizzare singoli t., anche se ormai sono molto rare le applicazioni che richiedono singoli componenti a stato solido. Sebbene i vari processi tecnologici debbano essere modificati e accuratamente messi a punto a seconda del tipo di t. o di circuito integrato da realizzare, esistono alcuni processi di base che sono utilizzati in tutti i casi.
Il primo processo di base consiste nella realizzazione di lingotti monocristallini di silicio con un contenuto di impurità indesiderate estremamente limitato (silicio adatto ad applicazioni elettroniche: EGS, electronic-grade silicon). Tali lingotti sono ottenuti per accrescimento da opportuni crogioli e presentano dimensioni trasversali di alcuni centimetri. A seconda delle successive lavorazioni si può avere il caso di lingotti di silicio puro, senza drogaggio, ovvero con drogaggio opportunamente dosato in vista dell’applicazione desiderata. Dal lingotto monocristallino, mediante tagli trasversali eseguiti con seghe diamantate di elevata precisione, sono ottenute piastrine (wafer) con spessori intorno al millimetro, che vengono lappate per la finitura superficiale e attaccate chimicamente per eliminare dagli strati superficiali gli elementi indesiderati introdotti con le lavorazioni precedenti.
Un secondo processo utilizzato è quello dell’accrescimento epitassiale. Tale processo permette di depositare strati sottili di materiale sul substrato al fine di ottenere particolari caratteristiche applicative. In particolare, tali processi sono usati nel caso di t. bipolari, con spessori di accrescimento di pochi micrometri. Due sono le tecniche principali usate per tale processo, e precisamente la tecnica di deposizione chimica in fase di vapore (CVD, chemical-vapor deposition) e la tecnica di deposizione a fascio molecolare (MBE, molecular beam epitaxy). Possono essere realizzati strati di silicio su silicio cristallino, su silicio amorfo, su zaffiro, su substrato isolante. In generale, lo strato ottenuto per deposizione epitassiale ha proprietà diverse da quelle del materiale ottenuto per fusione (bulk). Di particolare importanza è la deposizione di strati di silicio policristallino (polysilicon o semplicemente poly). Tali strati, a volte opportunamente drogati, si comportano come conduttori e sono usati, per es., come elettrodi di gate nei dispositivi MOS. Viceversa, lo strato di isolante di più facile realizzazione è il diossido di silicio, ottenuto con vari processi di deposizione o di ossidazione.
Un aspetto basilare nella costruzione dei vari tipi di t. consiste nella realizzazione di differenti modalità e intensità di drogaggio del substrato. I processi tecnologici usati a tale scopo sono la diffusione (diffusion) e l’impiantazione ionica (ion implantation). Il processo di diffusione consiste nel sottoporre il wafer all’azione degli elementi droganti in opportuni forni ad alta temperatura, in presenza di vapori di opportuna composizione chimica. Sono essenziali per il controllo del processo il tempo dell’esposizione, la temperatura, la natura dell’elemento drogante e lo stato superficiale del wafer. In tal modo può essere controllata la profondità di drogaggio con grande accuratezza, a causa della ridotta velocità di diffusione (intorno a qualche micrometro per ora). L’alternanza di regioni diverse di drogaggio è ottenuta modificando la natura dell’elemento drogante presente nel forno in istanti opportuni. Per contro, la diffusione può essere ostacolata mediante ossidazione superficiale del wafer che forma uno strato protettivo di passivazione impermeabile. Si ottengono così giunzioni piane anche di grande estensione con spessori molto sottili. Numerose sono le varianti di tale processo, fra cui la diffusione planare utilizzata per la produzione dei BJT e dei FET. L’impiantazione ionica consiste nell’utilizzazione di fasci di elementi ionizzati per ottenere il drogaggio di zone particolari del wafer. Tali fasci sono accelerati da opportuni campi elettrici e focalizzati sul wafer usato come bersaglio. Si ottengono così spessori e profili di drogaggio dosabili in modo estremamente accurato. Gli elementi più usati nei processi di drogaggio sono il boro, il fosforo, l’arsenico e l’antimonio.
Un altro processo di fondamentale importanza nella costruzione di t. è il processo litografico che consiste nel trasferimento sul wafer delle forme geometriche necessarie per la realizzazione dei dispositivi. Tale trasferimento è realizzato per mezzo di opportune maschere che riproducono le geometrie realizzative. I processi di mascheratura sono applicati in successione per realizzare i vari passi del processo tecnologico. Per es., successivi processi di ossidazione, diffusione, impiantazione ionica sono di norma realizzati con maschere diverse. In ciascun livello di mascheratura il wafer è ricoperto da uno strato sottile di emulsione fotosensibile (photo-resist o semplicemente resist). L’esposizione attraverso la maschera dà luogo a polimerizzazione dell’emulsione nelle zone impressionate. Le zone non impressionate sono facilmente asportabili mediante sviluppo, mettendo a nudo lo strato sottostante, che può essere sottoposto selettivamente al processo successivo. In alternativa, il processo litografico può essere ottenuto in altri modi, fra cui la litografia a raggio elettronico (EBL, electron-beam lithography). In questo caso, un fascetto elettronico è opportunamente focalizzato e guidato per disegnare sul wafer (ricoperto di resist) le geometrie d’interesse.
Un ulteriore processo utilizzato consiste nell’attacco chimico selettivo (etching), per eliminare opportuni strati in certe zone del wafer. L’etching, in genere è applicato in connessione con vari processi di mascheratura.
Rispetto ai t. utilizzati nell’elettronica analogica o digitale i t. di potenza si differenziano sostanzialmente per una configurazione costruttiva che li rende adatti all’impiego come interruttori a semiconduttore nei convertitori statici di potenza utilizzati per la conversione controllata dell’energia elettrica, nel campo di potenza da qualche decina di voltampere a molte centinaia di kilovoltampere. Analogamente ai t. utilizzati nei circuiti elettronici, i t. di potenza possono essere del tipo a giunzione, indicati nella pratica come BJT di potenza, oppure del tipo a effetto di campo, tra i quali, di larghissimo impiego nelle applicazioni, sono i MOSFET di potenza e, dalla metà degli anni 1980, gli IGBT (insulated gate bipolar transistor). Poiché nelle applicazioni dei convertitori statici di potenza sono di normale uso valori di corrente nel campo da qualche ampere fino a molte centinaia di ampere, i t. di potenza non sono di regola utilizzati nella zona attiva della loro caratteristica di collettore, in quanto l’elevata dissipazione di potenza comporterebbe un aumento della temperatura non tollerabile dalla piastrina di materiale semiconduttore. Pertanto i t. di potenza sono generalmente impiegati solo come elementi di commutazione, essendo utilizzati per la conduzione (detta stato di on) nella regione della caratteristica di uscita dove la tensione tra collettore ed emettitore è limitata a pochi volt, oppure funzionando in condizione di interdizione (stato di off), dove, con corrente di collettore nulla, il t. è chiamato a sopportare tra il collettore e l’emettitore una tensione di polarizzazione diretta che può raggiungere valori da qualche decina fino ad alcune migliaia di volt. Sia la commutazione del t. dallo stato di off a quello di on (accensione) sia la commutazione inversa (spegnimento), sono attuate inviando, attraverso un idoneo circuito elettrico detto circuito di pilo;taggio, un opportuno segnale di comando all’elettrodo di controllo del dispositivo. Tali commutazioni non avvengono istantaneamente, per cui sono parametri caratteristici di ciascun t. di potenza il tempo di accensione e il tempo di spegnimento. Questi tempi di commutazione, pur essendo intrinsecamente legati al tipo di t. (per es., i t. a effetto di campo di regola hanno tempi di commutazione più bassi di quelli del tipo a giunzione), dipendono in una certa misura dai valori massimi della corrente e della tensione per i quali il dispositivo è stato costruito, essendo inoltre significativamente influenzati sia dalle caratteristiche del circuito di carico, sia dalle modalità di funzionamento del circuito di pilotaggio.
Il funzionamento di un t., con periodiche commutazioni dallo stato di off a quello di on e viceversa, è caratterizzato da una frequenza di commutazione, definita come l’inverso del periodo di tempo intercorrente tra due successive commutazioni di accensione del dispositivo. A causa di tale funzionamento, nei t. di potenza ha luogo una significativa dissipazione di potenza, detta potenza perduta in commutazione, che si aggiunge a quella prodotta dal passaggio di corrente nel dispositivo durante il funzionamento in conduzione (potenza perduta in conduzione). La potenza perduta in commutazione, oltre a dipendere dai valori massimi di tensione e di corrente che sollecitano il dispositivo durante il transitorio di accensione o di spegnimento, è, in prima approssimazione, proporzionale ai tempi di accensione e di spegnimento del t., crescendo inoltre linearmente con la frequenza di commutazione. La scelta della frequenza di commutazione è fortemente condizionata anche dalla necessità di mantenere entro un limite prefissato il valore massimo della temperatura raggiunta dal chip durante il funzionamento: essa, pertanto, deve essere effettuata tenendo anche conto del sistema utilizzato per il raffreddamento del dispositivo. Un esempio applicativo di t. di potenza, utilizzato in genere per potenze che variano da alcuni kilovolt;ampere a qualche centinaia di kilovolt;ampere, è quello dei moduli di potenza, la cui forma costruttiva è mostrata in fig. 10 I: uno o più t. (tra essi opportunamente collegati e aventi ciascuno un diodo posto in antiparallelo tra il collettore e l’emettitore, come mostrato in fig. 10 II) sono assemblati in un contenitore ermetico di resina epossidica il cui fondo, costituito da una piastra di rame, è normalmente posto a contatto di un dissipatore di calore (detto heat sink) che, opportunamente raffreddato con aria naturale o forzata, oppure con liquido per le potenze termiche più elevate, consente lo smaltimento verso l’ambiente esterno del calore prodotto all’interno del dispositivo. I t. di potenza sono oramai il principale componente di quasi tutti i convertitori statici di potenza che trovano impiego in applicazioni elettriche quali, per es., l’azionamento di motori nel campo da qualche centinaio di watt a diverse centinaia di kilowatt, i sistemi di alimentazione con continuità assoluta (UPS, uninterruptible power supply) per utenze privilegiate (quali centri di elaborazione dati, apparecchiature elettromedicali, impianti aeroportuali ecc.), gli alimentatori stabilizzati (detti anche alimentatori switching) presenti in tutte le apparecchiature elettroniche, i sistemi di alimentazione di lampade fluorescenti ecc.