Impianto per la produzione di energia elettrica su scala industriale. Elementi essenziali di una centrale sono i generatori elettrici e i motori (motori primi) destinati ad azionare i generatori; completano l’impianto gli organi di manovra, di regolazione e di protezione, i quadri con gli strumenti di misura e di controllo, le apparecchiature ausiliarie. Di solito fa parte della centrale, come impianto annesso, una stazione di trasformazione per elevare la tensione prodotta e alimentare le linee di trasporto a distanza dell’energia elettrica. In tutte le centrali il generatore elettrico è costituito da una macchina sincrona, anche quando la trasmissione d’energia è poi effettuata in corrente continua.
A seconda del tipo di energia che viene trasformata in energia elettrica, si distinguono: centrali idroelettriche (fig. A), che utilizzano l’energia meccanica di masse d’acqua per azionare turbine idrauliche accoppiate ai generatori; centrali termoelettriche (fig. B), che trasformano l’energia termica sviluppata da combustibili fossili (carbone, olio ecc.) e utilizzano l’espansione dei gas combusti o del vapor d’acqua prodotto ad alta pressione in apposite caldaie; centrali elettronucleari (o nucleotermoelettriche o nucleari; fig. C), in cui il vapore, da inviare in turbina, viene ottenuto a partire da energia termica sviluppata da combustibile nucleare (uranio, plutonio, ecc.) (➔ anche caldaia); centrali geotermoelettriche, che sfruttano vapor acqueo di origine endogena terrestre per azionare turbine a bassa pressione; e inoltre, di più recente sviluppo, centrali elioelettriche (o solari), in cui si utilizza il calore raggiante solare (fig. D); centrali eoliche (o aeroelettriche), che impiegano l’energia dei venti per far funzionare gli aeromotori; centrali maremotrici (o talassoelettriche), che utilizzano l’energia del moto ondoso del mare o quella associata ai cambiamenti di livello provocati dalle maree o quella ottenibile dalla differenza di temperatura tra le acque di superficie e le acque profonde.
Le prime centrali elettriche del mondo sorsero nel 1882 a Londra e a New York, dopo che T.A. Edison ebbe perfezionato la dinamo (1879). Poco dopo, nel 1883, venne inaugurata la prima centrale italiana, quella di S. Radegonda a Milano; nello stesso anno, ne venne installata una a Roma.
Le acque che azionano le turbine provengono da bacini naturali, o più spesso artificiali, o da corsi d’acqua, e giungono alla centrale attraverso opere di raccolta e di convogliamento (dighe di sbarramento, canali di presa, camere di carico e condotte forzate), integrate da apparecchi di regolazione del flusso dell’acqua e da altre opere per lo scarico (fig.).
Le centrali a grande salto (da 300-400 m a 1000 e più m di dislivello), situate di regola in regioni montane, utilizzano grandi dislivelli naturali con piccole portate d’acqua per far funzionare turbine idrauliche ad azione. Dalla diga di sbarramento del bacino l’acqua giunge, tramite un canale chiuso o a pelo libero, alla camera di carico ove imbocca le condotte forzate che, con forte pendenza, la immettono nelle turbine.
Le centrali a medio salto, situate anch’esse in zone montane, hanno turbine idrauliche a reazione. Il salto può essere di qualche decina di metri fino a qualche centinaio, mentre le portate sono grandi. Talvolta la centrale è incorporata nella diga di sbarramento.
Le centrali a piccolo salto sfruttano le grandi portate dei fiumi e sorgono in zone che si prestano alla costruzione di una diga di sbarramento che realizzi il salto innalzando il livello delle acque a monte. Il salto può essere di pochi metri fino a una cinquantina; le portate sono grandi (anche di centinaia di metri cubi al secondo). Le acque vengono derivate nel canale a pelo libero previo passaggio in bacino di decantazione. Le turbine sono del tipo Kaplan o a elica. La produzione d’energia è discontinua perché dipende dal regime delle acque del fiume.
Notevoli progressi nelle tecniche costruttive si sono verificati nell’ambito della potenza unitaria dei turboalternatori (gruppi alternatore-turbina fino a 600 MW) e in relazione allo sviluppo degli impianti di pompaggio, cioè di impianti che, nelle fasce orarie in cui l’energia prodotta è superiore a quella richiesta, pompano l’acqua da un serbatoio a un altro, posto a livello superiore, trasformando l’energia elettrica di esubero in riserva di energia meccanica.
Per il macchinario di questi impianti due sono le soluzioni costruttive adottate. La prima soluzione si fonda sull’impiego di gruppi costituiti da una macchina elettrica con funzioni sia di generatore sia di motore, da una turbina idraulica e da una pompa innestabile mediante giunto sull’albero del gruppo. L’altra soluzione riguarda gruppi con macchine idrauliche reversibili, capaci di funzionare sia come turbine sia come pompe; gli sviluppi riguardano l’aumento della potenza, che per salti modesti può raggiungere anche i 400 MW, e più recentemente le macchine multistadio adatte per alte cadute (oltre i 500 m).
In Italia le prime turbine-pompe multistadio di grande potenza (150 MW) ed elevata caduta (oltre 1000 m) sono state quelle dell’impianto di Chiotas-Piastra, in Piemonte (otto gruppi a quattro stadi, ad asse verticale, rotanti a 10 giri/s). Per quanto riguarda l’evoluzione e gli sviluppi tecnologici, le novità più significative coinvolgono le centrali di piccola e piccolissima potenza, verso le quali si registra una maggiore attenzione, perché offrono il vantaggio di non dover impiegare nuovi grandi impianti; esse incontrano, pertanto, il favore del mercato, soprattutto di quello dei paesi emergenti (➔ miniidraulica). Impianti micro-hydro (da pochi kW fino a 100 kW) e mini (da 100 kW fino a 1000 kW) presentano notevoli vantaggi in quanto è sufficiente avere salti di 7/20 m con modesta portata o piccoli salti con buona e costante portata d’acqua. Dei circa 11.650 MW ottenuti da impianti con potenza minore di 10 MW installati in Europa (che rappresentano l’11,2% del totale della produzione idroelettrica), il 22% circa appartiene all’Italia. I costi associati all’energia idroelettrica sono da tempo competitivi con quelli associati alle fonti energetiche fossili.
I motori primi sono le turbine a vapore ad alta pressione con surriscaldamento e condensazione (specie per impianti di grande potenza), ma vi sono anche centrali funzionanti con motori Diesel, con turbine a gas ecc. (fig.). Le centrali termoelettriche sono situate in vicinanza del mare o di corsi d’acqua, sia per essere servite da trasporti navali o fluviali, sia per la necessità di condensare ingenti quantità di vapore. Le centrali dotate di turbine comprendono i generatori di vapore, la sala macchine con le turbine e gli alternatori, la sala dei quadri e la stazione di trasformazione. Si hanno rendimenti globali fino al 40% e potenze unitarie installate fino a oltre 1000 MW. L’aumento delle potenze unitarie porta a una riduzione del costo specifico di impianto, ma richiede particolari attenzioni nell’esercizio in quanto, per effetto della concentrazione di potenze così elevate in un’unica centrale, un eventuale disservizio avrebbe una notevole ripercussione in tutta la rete. Tra gli impianti ausiliari vi sono quelli per il rifornimento del combustibile (carbone, olio, metano) e dell’acqua (depuratori e degassificatori, pompe, rigeneratori per il preriscaldamento dell’acqua, condensatori del vapore) e quelli di ventilazione, per attivare la combustione nelle caldaie e per raffreddare i macchinari. Le centrali termoelettriche, per avere una gestione più economica, debbono funzionare alla piena potenza e in modo continuo. Vi sono però centrali termoelettriche per servizio temporaneo, che possono entrare automaticamente in funzione per far fronte al consumo nelle ore di punta o a eventuali guasti di altre centrali; sono costruite in modo da poter entrare in funzione nel giro di pochi minuti, per cui si impiegano generalmente turbine a gas. Per centrali di minor potenza (qualche migliaio di kW) si preferisce ricorrere ai motori Diesel (o alle turbine a gas) anziché alle turbine a vapore. Gruppi diesel-alternatore o turbine a gas vengono anche impiegati per alimentazione di servizi ausiliari delle grandi centrali elettriche e per l’alimentazione autonoma di grandi stabilimenti. Il ricorso alle unità turbogas, realizzabili in 2-3 anni, viene anche effettuato per consentire la copertura di eventuali deficienze di potenza derivanti da ritardi nella costruzione dei grandi impianti, per i quali occorrono 7-10 anni.
Negli anni 1990 si è rafforzata la tendenza a utilizzare come combustibile il gas naturale e realizzare impianti con la più elevata efficienza energetica possibile, cui è associato talvolta un sistema di teleriscaldamento. Di qui la spiccata preferenza verso impianti a ciclo combinato gas-vapore, con un ciclo superiore costituito da una turbina a gas, i cui gas di scarico ad alta temperatura si usano per produrre vapore per il ciclo termodinamico inferiore. Le turbine a gas hanno avuto un grande sviluppo (si raggiungono potenze superiori a 200 MW) e sono in grado di funzionare con temperature dei gas di ingresso sempre più elevate per poter aumentare la massima temperatura del ciclo termodinamico e, quindi, incrementare in maniera sensibile il rendimento; questi risultati sono stati raggiunti grazie alla disponibilità di nuovi materiali metallici e ceramici in grado di resistere a sollecitazioni meccaniche anche a temperature elevate e di tecniche di raffreddamento. Nelle centrali con cicli combinati è possibile ottenere rendimenti complessivi che possono avvicinarsi al 60%; contemporaneamente, in questi impianti si riduce la quantità di inquinanti prodotta per kWh generato, sia per l’impiego di gas naturale, sia per il maggiore rendimento conseguito.
Di notevole interesse sono le centrali termoelettriche alimentate da biomasse, la cui utilizzazione è favorita dalle eccellenti prestazioni ambientali; la combustione in tali centrali, infatti, comporterebbe una ridotta produzione netta di anidride carbonica, in conseguenza di una sostanziale equivalenza tra quella sviluppata nel relativo ciclo industriale e quella prodotta nella fase fotosintetica. A livello europeo, l’energia da biomassa è la fonte rinnovabile più utilizzata, contribuendo per il 65% alla produzione di energia da rinnovabili (2005): questa quota, tuttavia, rappresenta appena il 3,65% della produzione totale di energia. Per quanto riguarda le tre filiere principali, paesi leader sono Francia e Svezia per le biomasse legnose, Regno Unito e Germania per il biogas, Germania per il biodiesel e Spagna per il bioetanolo. L’Italia, con il 2,7% circa del fabbisogno coperto da biomasse (Enea 2005), si pone al di sotto della media europea.
Sono da menzionare anche i termovalorizzatori, in cui calore prodotto dalla combustione dei rifiuti viene utilizzato per produrre energia elettrica in maniera analoga a quanto accade nelle centrali termoelettriche. Gli odierni termovalorizzatori sono a tutti gli effetti delle centrali termiche che utilizzato i rifiuti come materiale combustibile, aggiunto ad altri materiali che ne conformano la prestazione alla combustione. A differenza delle centrali termiche i termovalorizzatori necessitano a monte di complessi impianti di separazione dei diversi materiali allo scopo di ridurre l’impatto ambientale connesso alla combustione di un gran numero di sostanze diverse difficilmente controllabili. Normalmente dai rifiuti vengono eliminati i materiali riciclabili o non combustibili come i metalli o il vetro. Il residuo viene solitamente sottoposto a essiccazione e poi inviato ai bruciatori.
Differiscono dalle centrali termoelettriche perché il calore è prodotto mediante reazioni nucleari in un reattore, anziché mediante reazioni chimiche nei focolai o nei bruciatori di caldaie (fig.). Nel reattore nucleare non ha luogo soltanto la produzione di calore derivante dalla fissione controllata degli elementi ‘combustibili’ in esso contenuti, ma anche il trasferimento del calore stesso a un fluido (acqua, liquidi organici, metalli liquidi, ovvero anidride carbonica, elio ecc.), che direttamente o attraverso ulteriori scambi termici evolve secondo un ciclo operante la trasformazione dell’energia termica in energia meccanica. Uno degli elementi che caratterizzano la produzione di energia elettrica a partire dall’energia nucleare è la grande varietà di reattori disponibili che vengono raggruppati in tre categorie in relazione al grado di sviluppo tecnologico: reattori di tipo provato, di tipo sperimentato, di tipo avanzato (➔ reattore).
Le centrali termonucleari presentano costi altamente competitivi. Infatti i bassi costi del combustibile fanno sì che, nonostante i maggiori investimenti necessari per gli impianti (all’incirca doppi di quelli per le centrali a olio combustibile), l’energia prodotta abbia un costo dell’ordine del 40% rispetto a quella prodotta dalle centrali a olio combustibile, e del 60% rispetto a quella prodotta dalle centrali a carbone. La potenza unitaria massima delle centrali in esercizio è di 1200 MW e quella delle centrali in costruzione di 1300 MW; entrambe appartengono a impianti con reattori ad acqua naturale.
Il problema dovuto al progressivo esaurimento del combustibile nucleare (con i ritmi attuali di aumento della produzione, pari al 40% negli ultimi 20 anni, si stima che l’uranio presente sia in grado di assicurare circa 50 anni di attività delle centrali nucleari) potrebbe essere risolto con l’utilizzo di reattori autofertilizzanti, che dovrebbero innalzare significativamente l’efficienza di utilizzo dell’uranio, portandola dal 5% degli attuali reattori a un teorico 99%. L’innovazione introdotta dalla tecnologia FBR (fast breeder reactor «reattori veloci autofertilizzanti») impiega la conversione dell’isotopo non fissile uranio 238, circa 140 volte più abbondante dell’isotopo fissile con numero di massa 235, in plutonio 239. Le controindicazioni derivano dal fatto che il plutonio è materiale adatto alla realizzazione di armamenti ed è chimicamente tossico (oltre che molto radioattivo). Per far fronte a questo problema sono state sviluppate centrali nucleari che utilizzano il torio, molto più comune dell’uranio, ma per il quale è necessario un procedimento di fertilizzazione. Alcune centrali nucleari a torio sono già operative in India, ricca di miniere di questo elemento.
In Italia a metà degli anni 1960 erano in funzione le centrali elettronucleari di Latina, Trino Vercellese e Garigliano. In seguito alla crisi energetica, fu poi avviata la costruzione della centrale di Caorso, entrata in funzione nel 1977, e quindi della centrale di Montalto di Castro. La vasta eco suscitata dal disastro di Černobyl´ del 1986 ha provocato la chiusura di tutte le centrali elettronucleari italiane e la decisione (1989) di costruire a Montalto di Castro, al posto della centrale elettronucleare, una centrale policombustibile, che impieghi olio combustibile o metano.
Nel 1999 l’energia nucleare ha fornito circa il 18% dell’elettricità prodotta nel mondo, mentre nei paesi appartenenti all’OCSE la percentuale sale al 26% e in quelli dell’Unione Europea a circa il 34%. In Europa il quadro è contrastante: negli anni 1990 sono stati completati e sono entrati in esercizio diversi impianti programmati in precedenza; poi, nella pianificazione e nella progettazione di nuovi impianti si è registrata una stasi e alcuni paesi, per es., la Germania, si sono mostrati propensi alla scelta di uscire gradualmente dal settore nucleare. D’altra parte, le crescenti preoccupazioni per le conseguenze dell’effetto serra fanno ipotizzare che, al fine di ridurre le emissioni gassose, si verifichi un rilancio delle centrali elettronucleari a scapito di quelle termoelettriche. L’accettabilità sociale degli impianti nucleari è condizionata da due problemi: quello della sicurezza e quello della sorte dei rifiuti radioattivi. Studi sempre più approfonditi vengono effettuati per elevare il grado di sicurezza e per far fronte alle conseguenze di eventuali incidenti. Maggiore attenzione è rivolta anche al problema della chiusura degli impianti: la centrale elettronucleare, contenendo sostanze potenzialmente inquinanti, al termine del suo utilizzo richiede il mantenimento di una sorveglianza sino alla eliminazione del rischio residuo e il raggiungimento di una condizione priva di vincoli all’utilizzazione del sito, in particolare dal punto di vista della radioprotezione.
La centrale a fusione nucleare si basa sul principio della fusione di due atomi leggeri, generalmente trizio e deuterio, che genera una enorme quantità di energia. Il deuterio rappresenta una minima percentuale dell’idrogeno in natura, e può essere ottenuto tramite elettrolisi dall’acqua pesante. Il trizio, al contrario, non è presente in natura e deve essere prodotto con reazioni nucleari indotte tramite bombardamento neutronico di isotopi del litio; ha una vita media molto breve e a causa della sua instabilità non può essere stoccato per lunghi periodi; deve essere quindi prodotto sul momento, sfruttando i neutroni provenienti dalle reazioni di fusione oppure da una centrale ausiliaria a fissione. La fusione richiede temperature di lavoro elevatissime, tanto da non poter essere contenuta in nessun materiale esistente. Il plasma di fusione viene quindi trattenuto con l’ausilio di campi magnetici di intensità elevatissima e le alte temperature vengono raggiunte con l’utilizzo di potenti laser. Tutti questi fattori rendono il processo difficile, tecnologicamente dispendioso e complesso. Questo tipo di centrale è da anni allo studio, senza aver dato risultati apprezzabili, e le stime attuali non prevedono l’utilizzo effettivo di energia da fusione nucleare prima del 2050. Il principale vantaggio sarebbe nel fatto che come principale tipo di scoria esse produrrebbero elio 4, che è un gas inerte e assolutamente non radioattivo, e, non impiegando sistemi a combustione, non inquinerebbero l’atmosfera.
Poiché la conversione dell’energia geotermica è ampiamente competitiva, numerose centrali sono state realizzate sin dagli albori dell’elettrotecnica, anche se nel mondo le zone in cui tale energia si rende facilmente disponibile sono limitate. Il fluido che si ottiene dai pozzi ha una costituzione assai varia: vapore surriscaldato o umido, anidride carbonica, acqua calda ecc. Le centrali attualmente in funzione impiegano vapore surriscaldato o poco umido, che negli impianti più datati viene utilizzato in scambiatori di calore per produrre vapore secondario da inviare nelle turbine, mentre quelli moderni viene direttamente inviato nella turbina. Importante per le elevate quantità di energia in gioco potrebbe risultare la possibilità di estrarre l’energia termica dalle cosiddette rocce calde secche a profondità relativamente modeste (inferiori ai 6 km): lo sfruttamento sarebbe realizzato mediante fratturazione artificiale delle rocce e circolazione forzata di un fluido scambiatore di calore.
Al 2004 risultano installati nel mondo circa 8910 MWe di potenza geotermoelettrica: Stati Uniti e Filippine sono i paesi leader, seguiti da Messico e Indonesia. In Italia, che con una potenza installata di 790 MWe rappresenta circa il 9% del totale mondiale e il 96% di quello europeo (2005), le centrali geotermoelettriche sono concentrate nella fascia pre-appenninica tirrenica, in aree in cui sono presenti fluidi alla temperatura di 300-350 °C, a profondità di 1500-2000 m. Si possono distinguere due usi principali delle centrali geotermoelettriche: lo sfruttamento diretto di risorse geotermiche a bassa e media temperatura (30-150 °C) e l’utilizzo di pompe di calore. Dei circa 6590 MW disponibili in Europa (2004), circa il 70% è installato in pompe di calore.
Nel campo delle centrali elioelettriche le direttive di ricerca sono state tre: la prima prevede il riscaldamento per mezzo dell’energia solare dell’acqua contenuta in grandi bacini, con il cui vapore azionare poi turbogeneratori a bassa pressione; la seconda l’impiego di grandi specchi che concentrano l’energia solare sul generatore di vapore, in modo da ottenere condizioni di vapore simili a quelle adottate nelle moderne centrali termoelettriche; la terza prevede la conversione diretta dell’energia raggiante solare in energia elettrica mediante celle fotovoltaiche.
Nel campo dell’energia solare l’Italia si è posta all’avanguardia, già nel 1963, con la realizzazione dell’impianto prototipo sperimentale di Sant’Ilario presso Genova, costituito da un campo di specchi parabolici orientabili che concentrano la radiazione solare in essi incidente su un ricevitore (o caldaia) posto in cima a un’alta torre, il quale produce vapore d’acqua ad alta temperatura. Questo tipo di centrale è stato sviluppato successivamente dall’Ansaldo, che ha potuto realizzare altri impianti prototipo; di particolare importanza è la centrale da 1 MW costruita ad Adrano (Catania). All’estero sono stati realizzati impianti di rilevante potenza; tra questi la centrale solare di Odeillo da 1 MW posta nei Pirenei (Francia), quella costruita dalla Sandia Laboratories negli USA, da 50 MW, e quella a Barstow (USA) da 10 MW. Nel settore della conversione diretta in energia elettrica mediante celle fotovoltaiche, l’ENEA ha costruito nel 1986, nei pressi di Manfredonia, l’impianto Delphos; la centrale è di tipo modulare con un modulo realizzato della potenza di 300 kW. Gli elevati costi di produzione e i bassi rendimenti delle celle al Si (22%) hanno consigliato finora l’installazione di questi impianti in località in cui la realizzazione di centrali termoelettriche o il trasporto di energia è parimenti oneroso (per es., isola del Giglio, isola di Vulcano).
Nel 2005, a livello mondiale, risultano installati 3700 MW di impianti fotovoltaici. I paesi leader sono la Germania (1429 MW) e il Giappone (1422 MW), mentre l’Italia, con 37,5 MW installati, è ben al di sotto della media europea (141 MW). Gli alti costi di installazione, anche se in diminuzione, fanno sì che la convenienza del fotovoltaico sia ancora fortemente legata a incentivi. Invece al 2005 a livello europeo risultano operativi circa 16 milioni di m2 di collettori solari. I paesi dove la diffusione è maggiore sono la Germania (41% del totale), la Grecia (19%) e l’Austria (14,5%), mentre, a dispetto della radiazione solare presente e quindi dell’alto potenziale di sviluppo, è ancora basso il contributo dell’Italia (3,2%). I collettori solari possono soddisfare il 70% circa del fabbisogno di acqua calda sanitaria di un abitazione; se si utilizza il solare anche per il riscaldamento domestico il fabbisogno complessivo che si soddisfa è di circa il 40-60%.
Un’altra ipotetica centrale potrebbe essere la centrale solare orbitale, costituita da uno o più satelliti che tramite celle fotovoltaiche convertono la luce del Sole in corrente elettrica e poi tramite un’antenna trasmettono l’energia ottenuta sotto forma di microonde. Il vantaggio di disporre le celle fotovoltaiche nello spazio rispetto a quello di installarle sulla Terra sarebbe dovuto alla costanza dell’illuminazione e alla mancanza di condizioni atmosferiche (nuvole, pioggia ecc.) che ridurrebbero l’afflusso di energia verso le celle. Lo svantaggio principale è l’elevato costo del trasporto in orbita dei satelliti e delle relative infrastrutture.
Il maggior interesse per la produzione da fonti rinnovabili ha riproposto all’attenzione la questione della conversione termica dell’energia proveniente dal Sole attraverso sistemi di concentrazione, che consentono di raggiungere temperature ben superiori a 400 °C, fino a 850 °C, e che permettono di ottenere rendimenti fino al 30%. Da un punto di vista economico tali sistemi risultano i più convenienti nello sfruttamento diretto dell’energia solare, anche rispetto agli impianti fotovoltaici; il loro potenziale energetico è rilevante e l’interesse riguarda aree semidesertiche, o comunque di scarso interesse agricolo. Sono stati avviati in molti paesi, tra cui gli Stati Uniti e l’Italia (in particolare dall’ENEA), programmi di sperimentazione e realizzazione di impianti di potenza considerevole, con l’obiettivo di coprire, nel medio termine, una percentuale rilevante della produzione da fonti rinnovabili. Per questo sistema di conversione energetica esistono tre tecnologie ben sviluppate a livello internazionale: quella basata su specchi parabolici lineari, i quali focalizzano la radiazione solare su un lungo tubo ove circola il fluido che porta calore verso una stazione di potenza localizzata centralmente; quella del tipo a torre solare, con specchi che seguono il moto del Sole e riflettono l’energia solare su un ricettore montato in cima a una torre localizzata al centro; quella con concentratori parabolici indipendenti, anch’essa con specchi mobili (ogni modulo può fornire da 5 a 50 kW) e possibilità di utilizzare delle ‘guide di calore’ Per svincolare, almeno parzialmente, la produzione di calore dalla richiesta di energia elettrica, si dimostra sempre interessante dal punto di vista economico l’accumulo dell’energia termica in un mezzo opportuno con elevata capacità termica.
Per azionare gli aerogeneratori, vengono sperimentati e sviluppati numerosi aeromotori, di tipo tradizionale e avanzato, per raggiungere potenze unitarie più elevate. Infatti anche se non è ipotizzabile che l’energia eolica copra una parte sensibile dei fabbisogni energetici, i maggiori sforzi di ricerca sono stati volti alla realizzazione di centrali di potenza sempre maggiore. Il costo dell’energia prodotta dalle moderne centrali eoliche è il più basso tra quelli degli impianti di conversione da energie rinnovabili (se si esclude la maggior parte di quelli idroelettrici) e nei siti con le condizioni migliori di ventosità è assolutamente competitivo con quello degli impianti di generazione a combustibili fossili. Alla fine del 2005, nel mondo, la potenza totale installata risulta di oltre 59.000 MW. L’Europa guida la scena, con un parco di oltre 40.500 MW, pari al 69% del totale. I paesi con le maggiori installazioni eoliche sono Germania (18.428 MW), Spagna (10.027 MW), Stati Uniti (9149 MW), India (4430 MW) e Danimarca (3122 MW). L’Italia, pur essendo considerata poco interessante per il potenziale eolico, con un incremento di 452 MW nel 2005 ha raggiunto una potenza installata di 1717 MW, ponendosi al quarto posto in Europa.
Un impianto eolico è costituito da uno o più aerogeneratori (parchi eolici) e, in base alla sua dislocazione, può essere di tipo on-shore (su terraferma) od off-shore (in mare). Gli impianti sono costituiti essenzialmente da una struttura di sostegno, in genere di acciaio (spesso un palo), che porta alla sommità un rotore (detto aeromotore, a tre o a due pale, ma anche monopala), collegato tramite un moltiplicatore di giri, a un generatore elettrico (del tipo sincrono, oppure asincrono); il generatore e il moltiplicatore di giri sono inseriti in un involucro (gondola o navicella) posto sulla sommità del sostegno e rotante secondo la direzione del vento. Per quanto riguarda la dimensione delle macchine, queste sono divise, in linea di massima, in tre categorie: a) macchine di piccola taglia (potenza inferiore a 50 kW), adatte soprattutto per utenze isolate; b) macchine di media taglia (di alcune centinaia di kilowatt), adatte a immettere energia nella rete elettrica nazionale soprattutto quando sono riunite in gruppi di più macchine (in tal caso si è diffusa la locuzione wind-farm); c) macchine di grande taglia (dell’ordine del megawatt), adatte a immettere energia nella rete elettrica nazionale.
Le centrali che sfruttano l’energia ottenibile dai mari sono essenzialmente di tre tipi: quelle che utilizzano le variazioni di livello dovute alle maree (centrali mareomotrici), quelle che sfruttano l’energia del moto ondoso (centrali cimoelettriche) e quelle basate su un ciclo termico ottenuto con la differenza di temperatura tra le acque di superficie e le acque profonde, soprattutto negli oceani (centrali oceanotermiche).
Il primo tipo di centrale è stato oggetto in passato di concreti studi e sperimentazioni, culminati nella costruzione (1966) in Francia, di una centrale elettrica sull’estuario della Rance. L’impianto consiste in uno sbarramento lungo 750 m sull’estuario del fiume, il quale forma un bacino di 4,3 km3 al livello del mare e di 22 km3 quando l’alta marea raggiunge in primavera la quota di 13,5 m; nella centrale sono installati 24 gruppi da 10 MW, dotati di una turbina a flusso assiale, detta a bulbo, il cui funzionamento è possibile con flusso d’acqua sia in una direzione sia nella direzione opposta. Impianti analoghi (ma di minori dimensioni) sono stati in seguito realizzati solamente nei paesi caratterizzati da maree di grande altezza, in Alaska e in Russia (sul Mar Bianco e sul Mare di Ohotsk).
Per lo sfruttamento dell’energia del moto ondoso sono stati ideati vari dispositivi e addirittura il primo brevetto nel 1799 sembra essere stato del francese Girard. In linea di principio questi dispositivi possono essere raggruppati in due categorie: quelli attivi, caratterizzati dall’avere elementi strutturali a geometria variabile per adattarsi alle diverse condizioni del moto ondoso; quelli passivi, che catturano l’energia dovuta alla differenza di livello tra la cresta e il ventre delle onde con strutture fisse e di grandi dimensioni. L’interesse per lo sfruttamento dell’energia delle onde è particolarmente vivo in Giappone, Norvegia e Gran Bretagna, ove lungo la costa dell’Atlantico si hanno condizioni tra le più favorevoli nel mondo (onde di 2-3 m di altezza, con periodo di 10 s e potenza di 10-40 kW per metro di fronte d’onda). In Scozia è stato completato, nell’isola di Islay, un impianto prototipo della potenza di 600 kW. Ogni metro di fronte ondoso può sviluppare mediamente 20 kW sottocosta e 70 kW al largo; l’efficienza del sistema è buona, circa il 50%; il fronte dell’impianto (sottocosta) è di 18 m e le due turbine da 300 kW producono in un anno circa 2300 MWh. Anche la Danimarca ha incentivato queste sperimentazioni e ha stimato un potenziale energetico nel Mare del Nord di 1700 MW.
La prima centrale prototipo per la conversione dell’energia termica degli oceani (ocean thermal energy conversion, OTEC) è nata nel 1996 al largo delle isole Hawaii e produce energia sfruttando il gradiente termico, ovvero la differenza di temperatura tra i diversi strati dell’oceano. L’energia solare assorbita dalla superficie del mare la riscalda, generando una differenza di temperatura fra le acque superficiali, che possono raggiungere i 25-28 °C, e quelle situate, per es., a una profondità di 600 m, che non superano i 6-7 °C. Le acque superficiali, più calde, consentono di far evaporare sostanze come ammoniaca e fluoro; i vapori ad alta pressione mettono in moto una turbina e un generatore di elettricità, passano in un condensatore e tornano allo stato liquido raffreddati dall’acqua aspirata dal fondo. Una differenza di 20 °C basta a garantire la produzione di una quantità di energia economicamente sfruttabile. Attualmente si ha una potenza di 50 kW, ma si pensa di poter arrivare a 2 MW anche se i costi sono molto alti.