Le farfalle bianche tornano a volare
Negli ultimi anni il costante aumento delle iscrizioni agli istituti alberghieri è diventato un vero e proprio fenomeno, riconducibile alla risonanza mediatica degli chef e del mondo dell’alimentazione. Al tempo stesso, però, sono diminuite le iscrizioni ai licei. Chi considera questo exploit un buon segnale per il settore della ristorazione sottovaluta che fino a quando l’alberghiero non si evolverà nel diventare un liceo alberghiero, continueranno a esserci lacune nella formazione degli alunni. Quando ho frequentato l’alberghiero negli anni Settanta, a Roma ce n’era solo uno ed eravamo 25 iscritti. Oggi le scuole sono almeno 20 e gli iscritti più di 7000. Di fronte a un tale fenomeno, da addetto ai lavori, da cuoco, da ristoratore, da imprenditore con ormai 30 anni di carriera alle spalle, ritengo ci si debbano porre delle domande. È vero che questa ‘indigestione’ genera economie e in un momento storico, politico e sociale come quello attuale va bene che il tema del cibo abbia una grande importanza, ma la valutazione da fare in proposito è molto complessa ed è un errore ritenere che approdare al mondo della cucina e della ristorazione sia estremamente semplice.
Ecco perché piuttosto che continuare a proporre corsi di cucina per chef che non diventeranno mai chef e per cuochi che non diventeranno mai cuochi, credo sia più utile organizzare dei master che diano la possibilità ai giovani di diventare imprenditori nel settore della ristorazione. Dei master che puntino a creare figure manageriali dell’alta ristorazione; dunque non semplici cuochi, ma futuri professionisti che sapranno gestire un’impresa tout court, dalla definizione di un business plan alla realizzazione di una vera e propria azienda dell’alimentazione. I docenti dovranno essere professionisti dell’enogastronomia: manager di grandi aziende, studiosi e critici, esperti del marketing e della comunicazione. Il nostro paese ha bisogno di giovani imprenditori che si rivolgano al sistema agroalimentare in tutte le sue possibilità accrescendo e sviluppando le attività che ruotano attorno al cibo.
La ristorazione è cambiata: è il cuoco a dover possedere conoscenze gestionali e mai come oggi abbiamo bisogno di imprese finalizzate a degli obiettivi ben precisi, piuttosto che di fenomeni mediatici passeggeri legati al cibo e alla cucina. Bisogna creare nuovi modelli per favorire le aziende che vogliono investire nella ristorazione, ma per realizzarli è necessaria una formazione completa, una coscienza e una conoscenza approfondita della materia e della tradizione. La formazione parte da un pensiero filosofico che a sua volta nasce da una base culturale, in cui la materia del cibo fa da supporto, nella sua centralità, alle tante altre che l’attraversano. Perché il cibo è anche arte, è fotografia, è cinema, è letteratura, è storia, è l’essenza vitale dell’esistenza. Se l’obiettivo finale del master è preparare alla vita professionale, esso può essere raggiunto solo con il supporto delle materie scientifiche, umanistiche, storiche, antropologiche, delle discipline del cibo e della nutrizione: tutti aspetti che confluiscono nel mercato agroalimentare. Altrettanto importanti sono le testimonianze e le esperienze delle famiglie di osti ristoratori, che si possono definire imprenditori ante litteram.
Cibo, arte e formazione: ecco il cuore del master. Il cibo, in quanto elemento di sopravvivenza, è anche tradizione, origine, storia: antropologia e cibo viaggiano quindi di pari passo. Parlando di cibo e del suo ruolo nella storia dell’uomo non si può non portare in primo piano il territorio. Il territorio è l’ingrediente così come è sempre stato, senza contaminazioni, è l’ambiente, è la stagionalità, è l’identità, è la storicità. Forse mai come negli ultimi decenni sta cambiando in maniera repentina, in primo luogo a causa del consumismo. Il territorio di oggi già non è più quello di 30 anni fa, la natura non è più ‘naturale’. Si è persa la cultura di andare nei mercati e odorare, toccare, sentire. Il prodotto è la cartina tornasole dell’attività umana: se i prodotti che abbiamo sono scadenti e lontani dalla genuinità, dovremmo forse fermarci a riflettere su come stia operando l’uomo. Territorio e consumismo non possono convivere e il secondo ha già avuto pesanti influenze anche sul linguaggio, che utilizza parole oggi senza più senso, soprattutto nel mondo del cibo. Per esempio, quando c’era il territorio, ‘genuino’ aveva un significato ben preciso, ma oggi, che troviamo questa parola sulle etichette dei prodotti delle grandi industrie? ‘Aroma naturale’ che cosa significa precisamente? La legge consente di applicare tale definizione a molti prodotti, ma essa avrebbe un significato ben diverso, che si ricollega alla natura e non ai prodotti trattati.
Il consumismo e la globalizzazione hanno cambiato radicalmente il rapporto che abbiamo col cibo. Ciò che mangiamo non ha più niente a che fare con i cicli della natura e questo ci ha fatto anche perdere l’emozione di aspettare il giusto momento dell’anno per poter assaporare un determinato ortaggio o frutto. Se spesso è l’uomo a modificare la natura e il territorio, a volte è vero anche il contrario. Quando il grano venne introdotto come alimento non tutti erano in grado di digerirlo e solo nel tempo uomo e natura sono riusciti a trovare un equilibrio reciproco: possiamo dire che la biodiversità, in qualche modo, si è autoselezionata. Questa convivenza sana, però, è stata mantenuta fin tanto che il rapporto tra l’uomo e il cibo è stato diretto, immediato, sincero. La globalizzazione ha ora contaminato questo rapporto attraverso l’industria e la chimica e per tale motivo non possiamo attribuire certe problematiche, come ad esempio la celiachia, solo al cibo. Riscoprire la tradizione potrebbe essere la chiave per un processo ‘all’indietro’: soprattutto in un momento storico-sociale come questo, che spesso ci vede proiettati verso la globalizzazione, la tradizione è una ricetta di storia, di memoria, di ricordi che può aiutarci a recuperare quell’identità, anche culinaria, che rischia di perdersi.
Se tradire la tradizione è inevitabile, ciò si può fare solo conoscendo le regole. Un tradimento ‘sano’, che abbia come fine il cambiamento e il miglioramento, non il rinnegamento. Se la tradizione è l’ingrediente, il tradimento è prendere quello stesso ingrediente e, mantenendone il rispetto, contaminarlo, modificarlo, innovarlo. Non si deve perdere mai traccia della storia che c’è dietro a ogni ingrediente e a ogni piatto delle tradizioni, siano essere contadine, popolari o pastorali, ed è importante continuare la storia gastronomica, che alla base ha una sana interpretazione della cucina tradizionale, puntando a valorizzare l’ecosistema fatto di prodotti stagionali del territorio, che vanno conosciuti, recuperati e rispettati nei loro cicli naturali.
I mercati cambiano a seconda delle esigenze, e di esigenze, oggi, ce ne sono più che mai: chi è intollerante a componenti come il lattosio o il glutine, chi non mangia determinati cibi per scelta – come i vegetariani o i vegani – e chi per religione – come gli ebrei o i musulmani – e così via. La domanda si allarga e il mercato deve stare al passo con i tempi e rispondere con la giusta offerta: sta allo chef, sta al ristoratore sapersi adattare a un mondo in cui le esigenze sono diverse. Chi entra in un ristorante non deve sentirsi diverso, al contrario dovrebbe poter scegliere trovando un menù adeguato senza che i piatti debbano esser segnati o etichettati.
In cucina negli ultimi trent’anni sono scomparsi attrezzi e di conseguenza linguaggi. In parte ciò è avvenuto perché si voleva rompere con la tradizione, con tutte le cose che non piacevano più, in cui non ci si riconosceva più. Per esempio, nella cucina romana fino a 25 anni fa il piatto doveva essere presentato nel pieno rispetto delle regole, senza variazioni: la ricetta doveva essere identificata, riconosciuta immediatamente, anche da uno straniero. Questi limiti a un certo punto non hanno più tenuto. È stata cambiata soprattutto la presentazione, trasformando piatti che potevano sembrare ignoranti, rustici, per renderli eleganti, raffinati. Personalmente, ho voluto realizzare un cambiamento interpretando, utilizzando gli stessi ingredienti ma giocando su fattori che non erano mai stati presi in considerazione, come le geometrie e gli aspetti cromatici. Ho fatto un’azione di restyling operando sulla presentazione: mangiando a occhi chiusi si riconoscono i sapori inconfondibili di sempre, ma a occhi aperti ci si trova davanti qualcosa che non ci si aspetta.
Alle spalle avevo il patrimonio della cucina romana e laziale: l’abbacchio, la caciotta e il pecorino; mentre chi stava più a nord aveva il tartufo bianco, il fassone, l’aceto balsamico. La campagna romana non ha lasciato una grande eredità, perciò ho dovuto fare un percorso all’indietro fino al Rinascimento.
‘Sugo’ non si sente più, e neanche ‘umido’; oggi sto recuperando quel vocabolario e quell’atteggiamento che sono stati completamente cancellati e sopraffatti da ‘schiume’, ‘spume’, ‘arie’. Se andiamo ad analizzare più a fondo questi tipi di mercato nel tempo, notiamo che perdono subito quota: non basta andare su Internet e vedere quello che ha fatto un grande chef, per quanto rivoluzionario sia stato. Certi piatti può farli lui, non possono farli tutti. Scoprire come realizzare una tecnica o un piatto non ha futuro se dietro non c’è un pensiero, se non c’è una storia e persino un’estrazione sociale.
La tradizione è l’estratto sociale del nostro popolo e probabilmente ne è, per assurdo, il punto debole perché è stato l’elemento più facilmente contaminabile. In un paese del nord Europa, invece, dove non c’è una tradizione così forte, cosa c’è da contaminare? De Gaulle, dopo aver passato diversi giorni in Italia, tornò in Francia e davanti al Parlamento disse: «Come si può governare un paese con 800 tipologie di formaggio?!» Questa è la nostra cultura, questa è la nostra tradizione. Guardiamo all’Italia, così frazionata nel suo territorio, nel territorio del territorio fino ad arrivare a un suo aspetto ristrettissimo: uno stesso piatto si fa in modi diversi, anche tra paesi che distano tra loro pochi chilometri. Aveva ragione De Gaulle, è impossibile.
Dobbiamo dunque riflettere su quello che ciascun territorio produce e offre. Sono molto soddisfatto di potermi definire farmer chef. Il progetto di Vallefredda, infatti, mi ha permesso di realizzare il sogno e il bisogno che avevo: l’evoluzione della biodiversità, dell’orto, della vera filiera corta. Ciò che coltiviamo diventa la materia prima della nostra cucina, ma è vero anche che da soli non riusciamo a soddisfare le richieste che abbiamo ed è per questo che ci rivolgiamo a chi, come noi, coltiva e raccoglie nel rispetto della natura e delle stagioni. Oggi troppo spesso si parla di filiera corta in maniera impropria, l’espressione ‘chilometro 0’ è fin troppo abusata: per qualcuno vuol dire aver comprato le verdure al supermercato affianco... Si parla molto di biologico, di qualità certificate, ecc.; sono temi di grande rilevanza sui quali c’è, però, della confusione creata soprattutto dal sovraccarico informativo: la sensibilità alla qualità e al biologico è aumentata notevolmente negli ultimi anni, ma come ci si può orientare e fare delle scelte veramente consapevoli se ovunque si legge «chilometro 0»? Nel mondo della ristorazione non cambia molto: la strada da percorrere è lunga soprattutto se si intende distinguere tra retorica, demagogia e vera consapevolezza.
Ciò che voglio arrivi nel piatto è non solo un cibo di qualità, ma anche i sapori, i profumi, i sentori di una tradizione quasi scomparsa. Quando ero piccolo mi hanno insegnato non tanto a cucinare, quanto le emozioni collegate ai profumi, e questo mi è rimasto dentro e cerco di trasmettere attraverso la mia cucina: i cibi devono essere bagaglio di emozioni, di sensazioni, di esperienze. Devono essere un viaggio continuo alla ricerca delle radici. In passato sapori e odori erano scanditi dal calendario e a essi erano associate emozioni ben specifiche. Il giovedì c’erano gli gnocchi, il venerdì il baccalà, il sabato la trippa – e quella di una volta era proprio puzzolente! – la domenica era segnata dal profumo del brodo, legato a un giorno di festa. Queste tradizioni e memorie ancora le porto nel mio mondo e nella mia cucina: le noci si raccolgono nella notte delle lumache, il 24 giugno, e in quei giorni anche la salvia è più buona. Ho avuto la fortuna, fin da piccolo, di essere invaso - la pelle, i sensi - dal verde del rosmarino, dall’odore della maggiorana, dall’esotismo della salvia, dal rosso del pomodoro che segnava l’estate, dal giallo dei peperoni che ricordava i campi di girasole. I colori e i profumi della natura e del territorio hanno da sempre occupato il mio corpo e la mia mente ed è per questo che la mia ricerca punta a tornare al passato, a riscoprire queste suggestioni, per riportarle, oggi, nei piatti che propongo. Per trasmettere, anche a chi non ha avuto una storia come la mia, dei sentori che fanno parte della nostra tradizione e della nostra cultura. Farli riscoprire a chi li ha come ricordo e farli conoscere a chi non li ha mai provati.
Tra coloro che parlano di gusto possiamo distinguere due categorie di persone: il cliente condizionato dalle mode e dalle tendenze e il gourmet vero, quello che concepisce il cibo come un’esperienza, quello che nei profumi e nei sapori ritrova dei ricordi, quello che dietro a un piatto scorge un progetto. È per capire il ‘gourmet nato’ che prima di dedicarmi alla Porta Rossa ho fatto il ‘barbone di lusso’: non puoi creare qualcosa di tuo, avere una tua visione del mondo se prima non provi, assaggi, viaggi, conosci, sperimenti. Per diversi anni ho fatto l’ospite in quelli che all’epoca erano i più grandi ristoranti d’Italia, perché la cucina è come la musica: i concerti vanno seguiti dal vivo. Certe esperienze vanno vissute, viste e assaporate in prima persona. Le emozioni bisogna viverle, elaborarle, e solo dopo è possibile trasmetterle agli altri.
La mia cucina è fatta delle mie conoscenze e dei miei ricordi. Sono questi gli ingredienti che calibro e doso nei piatti, affinché questi possano trasmettere la mia visione del mondo, le mie emozioni, in cui anche gli altri possano riconoscersi.
Identità, passione, agonismo sono le parole chiave per sintetizzare ciò che accade nella mia cucina. Sono questi infatti gli elementi che mi permettono di continuare la storia gastronomica che ha alla base una sana interpretazione della cucina italiana e romana. Il mio lavoro è caratterizzato dalla valorizzazione dell’ecosistema gastronomico costituito dai prodotti di stagione del nostro territorio, elementi che vanno recuperati e rispettati nei loro cicli naturali. Il rispetto verso le radici storiche della gastronomia non deve essere banalizzato, al contrario è fondamentale per ricostruire la nostra identità culturale.
Il senso di questa ricerca al passato è anche quello di recuperare almeno una parte della conoscenza che abbiamo perso. Le nostre campagne sono una ricchissima fonte di fiori eduli, piante, erbe, ma non lo sappiamo. Nel periodo autunnale i prati si riempiono di grandi margherite gialle; pochi sanno che quello è il fiore di un tubero straordinario, il topinambur. Un giorno stavo raccogliendo delle castagne cadute dall’albero; mentre le sbucciavo e le mangiavo mi è stato chiesto: «Le mangia crude?!». Le castagne sono un frutto come le nocciole, come le noci! Una volta cadute dall’albero si possono spellare e mangiare crude oppure grattare come un tartufo, perché su un certo piatto il sapore di castagna ancora umida può andar bene. Oppure si possono far bollire nell’acqua con alloro o chiodi di garofano, e quando si mangiano sembrano marron glacés. Infine c’è la caldarrosta. Anche la noce, appena aperta dal mallo e privata della pellicina, ha un sapore completamente diverso. Il ragù di noci nel mio paese si fa da sempre: con i primi freddi un piatto classico è la polenta col ragù di noci. Ecco l’antropologia del cibo, la tradizione popolare. Il palato deve affinarsi affinché possa cogliere le sfumature e le note che uno stesso cibo può esprimere se trattato in modi diversi, ed è così che nascono le ricette, è così che nasce la ricerca. Se non si conoscono questi percorsi si rischia di usare i cibi in maniera sbagliata: molta conoscenza è andata perduta e di questo le industrie e la globalizzazione ne hanno approfittato. Non dobbiamo perdere la memoria.
In cucina negli ultimi trent’anni sono cambiate molte cose: sono scomparsi attrezzi e di conseguenza linguaggi, e al tempo stesso ne sono nati di nuovi. Per esempio, non posso accettare ‘emulsione’, è un termine che si usa dal barbiere! È stata anche colpa nostra, mia e dei miei colleghi: abbiamo voluto rompere con la tradizione, con tutto quello che non ci piaceva, in cui non ci riconoscevamo più. In quegli stessi anni il design, la moda, il cibo avevano subito una fase superficiale, statica, di appiattimento. Si sentiva la voglia e la necessità di rigenerare tutto quello che era l’italian style. Circa 25 anni fa in Francia nasceva la Nouvelle Cousine, un movimento che potrei definire gastropolitico, attraverso il quale si voleva ridefinire il cibo internazionale, ridisegnare la cucina. In Italia Gualtiero Marchesi si fece portavoce di questo movimento che diede vita a enormi cambiamenti anche nella cucina italiana e del quale gli chef della mia generazione si sono sentiti discepoli cambiando tutto: come era allestita una cucina, i linguaggi utilizzati, l’espressione del cibo.
Dopo la Nouvelle Cousine la cucina molecolare, che è un po’ fisica, un po’ chimica e tanta ricerca, è stata indiscutibilmente una delle più grandi rivoluzioni culinarie e ha avuto ripercussioni su tutte le cucine a venire, nonché sugli chef che si sono dovuti confrontare con questo fenomeno che in poco tempo ha avuto una rilevanza mondiale. In molti l’hanno male interpretata, considerandola una cucina artificiale e addirittura pericolosa. È stata vista con sospetto la totale trasformazione visiva, sensoriale e gustativa dei cibi. Ma volenti o nolenti è tra noi, è un fantasma che aleggia attorno a chi si occupa di cucina e di cibo.
Se parliamo di trasformazione del cibo, però, anche il frullatore può causare un’accelerazione delle particelle e spersonalizzare il prodotto stesso. Allora qual è il limite ‘accettabile’ della trasformazione? Come si può definire un sapore? Pensiamo a una maionese lavorata in maniera classica: sono previsti la frusta, l’olio messo a filo, le uova aggiunte in un certo modo. Ma il palato fa fatica, spesso, ad avere una percezione perfetta. Parliamo di artigianato, sono le emozioni che escono fuori e trasmettono il messaggio. È come cucire una scarpa a mano o a macchina: probabilmente il risultato è lo stesso o per assurdo può esser meglio quella realizzata meccanicamente. Allora perché sono critico, per certi versi, nei confronti di questo tipo di cucina? A volte si cerca di rendere a tutti i costi un prodotto innovativo dimenticandone la storia, l’identità. Dobbiamo tutelare un mortaio come un girarrosto, come un sottovuoto, e vedere se gli elementi, gli strumenti e i saperi del passato e del presente possono integrarsi e convivere. I giovani chef si renderanno conto che stupire con gli effetti avrà un pubblico sempre più ristretto. Secondo me bisogna aprirsi sempre alle evoluzioni, alla tecnologia, alla ricerca, mantenendo e preservando però l'identità e il carattere, ciascuno nelle proprie tradizioni della grande cucina italiana. Mi preoccupa che seguendo certe nuove tendenze si possa perdere la memoria dei sapori e dei valori.
Per evitare questo è necessario il recupero dell’artigianalità. Il rispetto dell’artigianato, del made in Italy. L’evoluzione ha messo in gioco anche l’industria e la tecnologia e quindi, a oggi, è giusto che il cuoco sperimenti e faccia ricerca anche attraverso di esse. Se riuscissimo a fondere l’arte più nobile e la tecnologia più avanzata, rispettando entrambe e preservandone i valori fondamentali, allora potremmo parlare di grande cucina. Cerco sempre di trasmettere questa sinergia nei miei piatti come per esempio nel negativo di carbonara, una rivisitazione ‘al contrario’ del famoso piatto romano in cui la cucina popolare si veste da regina: si prende il piccolo raviolo, si porta alla bocca, si chiudono gli occhi e masticandolo si viene invasi dai sentori e dai sapori della carbonara.
Spesso ho avuto un'idea, l'ho distrutta e poi ricreata così da poter riportare alla luce ogni singolo sapore nato dalla fertile campagna laziale. Nel corso degli anni ho rivisitato più volte piatti della tradizione romana. Alcuni venivano considerati poco sofisticati o nati da una tradizione povera, altri stavano morendo o stavano diventando un’abitudine: dalla trippa, al cacio e pepe, alla spalla di capretto. Ho ripreso tutti questi piatti, li ho destrutturati e li ho interpretati a modo mio per far sì che fossero in grado di trasmettere i sentori di una vecchia storia. Era necessario riportare l’attenzione verso i piatti della tradizione che stavano iniziando a essere messi in secondo piano dalle mode culinarie emergenti.
Alla creatività preferisco la genialità: la creatività crea bellezza, la genialità crea del bene e tutela dal male. La genialità quindi genera grandi cibi, che fanno bene, e tutela dai cibi contaminati. Oggi esistono cibi sostenibili e cibi insostenibili. È insostenibile accettare che attraverso la creatività si debbano mangiare per forza alcuni cibi. La cucina non è soggettiva: o è buona o è cattiva. La sostenibilità, invece, nasce dai cicli, dai tempi, dalle stagioni.
Se parliamo di ricerca e di laboratorio, dobbiamo partire dai piatti della tradizione. Ad esempio, l’amatriciana è un piatto estivo o invernale? Non si può fare più di due mesi l’anno: da fine aprile a fine giugno, quando il pecorino ha la giusta stagionatura, il pomodoro la giusta maturazione e, soprattutto, è pronto il guanciale, il primo salume che si stagiona. Nell’ecosistema, nelle radici della cucina romana, popolare, italiana, delle grandi tradizioni, è in tempi precisi che nascono certi piatti. La creatività è anche figlia della necessità, che a sua volta crea genialità, che è andare oltre le pratiche date per scontate, assodate, accettate. Ed ecco la mia anarchia in cucina!
Ho una grande amicizia con Carlo Petrini e condivido appieno la filosofia del movimento Slow Food, che ho sposato fin da quando è nata. Pur valorizzando il territorio, però, alcune cose le metto un po’ in discussione. Quando aprii il mio primo ristorante, avevo un carrello di formaggi che ne contemplava una quarantina di varietà diverse: volevo avere l’eccellenza e per questo la ricercai nei migliori formaggi del mondo, attraverso prove e assaggi. Non avrei mai potuto fermaremi alla scelta dei prodotti laziali. Anche oggi, per uno dei miei piatti ho dovuto puntare inevitabilmente su un formaggio normanno: è il migliore al mondo. Per questo affermo che il territorio non sempre è vincente. Persino Petrini ha sostenuto che un prodotto fatto bene all’estero è meglio di un prodotto fatto male in Italia. Questo però non giustifica, nel mondo della cucina e degli chef, la mancanza quasi totale di ricerca delle biodiversità del nostro territorio. Ci deve essere cura e cultura dei nostri prodotti e delle nostre tradizioni, ma senza integralismi.
Cucinare è un atto politico, così come il mangiare. Come otteniamo i nostri prodotti, come decidiamo di preparare i nostri piatti e i limiti che decidiamo di accettare, e infine quello che decidiamo di mangiare, tutto ciò può avere un impatto socio-politico molto forte.
Dobbiamo tornare al cibo ‘umano’, senza compromessi né concessioni al consumismo culinario. È necessaria una ri(e)voluzione, ma non può esserci evoluzione senza coscienza, anche politica. Scelgo pietanze nate dalla terra e rivoluzionate nel piatto, che parlano del mio territorio seguendo la tradizione. Nei miei piatti nulla è affidato al caso: sono il frutto della ricerca, del pensiero, della riflessione.
Il lusso è la ricerca, la possibilità di farla. È la possibilità di tornare a mettere piede sulle strade che ci hanno dato un'emozione; di conseguenza il lusso è anche farsi del bene e saper godere delle cose che ci danno benessere. Il lusso è sapersi muovere a proprio agio nel lusso: chi ha detto che la cena in un ristorante stellato deve per forza essere inarrivabile? Ho sempre fatto in modo che nei miei spazi le persone potessero concedersi e godere un'esperienza di alta cucina con pochi euro.
Bisogna infatti distinguere tra ciò che è caro e ciò che è costoso. Cari sono i ristoranti e i locali che si pongono su una spesa che sembra abbordabile soprattutto per i ragazzi, ma che offrono il nulla, dimostrando che dietro quel prezzo non c’è ricerca, non c’è qualità. Quello che oggi costa, il vero lusso, è la ricerca, non è più il caviale. Con una patata che costa 40 centesimi al chilo posso fare un menu lussuoso facendo della ricerca su uno specifico prodotto del territorio ed è la ricerca quella che costa di più, così come il servizio e la formazione. Partendo dall’alto, sono riuscito a creare a Roma uno spazio aperto a tutti, in cui assaggiare, a prezzi avvicinabili, la qualità dell’alta cucina. Ho portato la grande ristorazione a essere usufruita da tutti: questo è il risultato delle mie ricerche.
Sono convinto che passeremo attraverso una controrivoluzione che riporterà a tavola le vere tradizioni. Il futuro sarà il ritorno ad apprezzare, valorizzare e tutelare tutta la nostra biodiversità. Dovrà essere per forza così, altrimenti avranno avuto ragione quelli che, quando eravamo piccoli, dicevano che un giorno ci nutriremo di compresse ‘al sapore di’. Spero che quel giorno non lo vedremo mai.
È per questo che tutti i miei sforzi sono orientati a preservare la nostra terra: avere un orto, per me, vuol dire avere un territorio protetto, dal quale so cosa ricavo e di cui conosco la qualità dei prodotti.
Dove ora sorge Vallefredda, anni fa c’era un’immensa discarica a cielo aperto; è stato un lungo lavoro di cura e pazienza per aiutare la campagna a ridiventare quella che era prima del nefasto intervento dell’uomo. Dopo molti anni, finalmente, abbiamo avuto il segnale che il terreno è di nuovo vivo e sano: le farfalle bianche sono tornate a volare.