Probabilità che un certo fenomeno naturale, superata una determinata soglia, produca perdite in termini di vite umane, di proprietà, di capacità produttive. Viene espresso in funzione di tre fattori: pericolosità ambientale (probabilità che un determinato fenomeno si verifichi in un certo territorio e in un determinato intervallo di tempo), vulnerabilità territoriale (insieme della popolazione, delle infrastrutture, delle attività economiche ecc., che può subire danni materiali ed economici), valore (danno che viene prodotto). Il rischio ambientale può essere mitigato attraverso strategie di prevenzione, con azioni mirate alla riduzione della vulnerabilità e coerenti ai progressi delle ricerche sulla pericolosità ambientale.
Pericolosità ambientale riferita alla probabilità che si verifichi un fenomeno di instabilità geomorfologica, cioè un fenomeno connesso a forme del terreno che non sono in equilibrio con l’ambiente naturale o che lo sono ma in modo particolarmente dinamico. Processi che determinano una pericolosità geomorfologica sono: a) la degradazione dei versanti e, in particolare, i movimenti franosi. Le frane, infatti, oltre alla loro pericolosità intrinseca, possono ostruire temporaneamente gli alvei fluviali e allo stesso tempo dar luogo ad accumuli incanalati che si scaricano periodicamente a valle, spesso in conseguenza di intense precipitazioni. Fondamentali sono anche i fenomeni di instabilità dei versanti in aree vulcaniche e le deformazioni gravitative profonde assieme al loro monitoraggio; b) l’erosione e le inondazioni fluviali. Il processo di inondazione si manifesta in dipendenza di diversi fattori, naturali e artificiali, che interagiscono al fine di determinare la capacità di trasferimento delle acque all’interno del sistema fluviale. Risulta così evidente quanto sia fondamentale la previsione in tempo reale delle piene di un corso d’acqua, previsione che può realizzarsi a condizione di disporre di sistemi di telemisura sui bacini idrografici; queste devono consentire di disporre di un valore affidabile del volume di pioggia che cade su un bacino e di una sua eventuale previsione, nonché di conoscere in modo più dettagliato i fenomeni di infiltrazione delle acque e di avere una migliore interpretazione della variabilità spazio-temporale delle precipitazioni. Di particolare importanza sono inoltre la previsione in tempi brevi delle piogge di breve durata e forte intensità, e l’individuazione delle cosiddette aree inondabili, cioè di quelle aree soggette a differenti modalità di allagamento in relazione ai reciproci rapporti geometrici con il corso d’acqua di pertinenza; c) l’erosione marina. La pericolosità connessa all’erosione marina è legata ai danni prodotti alle attività antropiche, le quali rappresentano esse stesse la principale fonte di instabilità nell’ambiente costiero, a seguito delle escavazioni negli alvei fluviali di sabbia e ghiaia (che impoveriscono gli apporti detritici dei corsi d’acqua alimentanti le spiagge), della costruzione dei porti-canali (che allontanano verso il mare i sedimenti apportati alla costa, impedendone il trasferimento lungo il litorale), dell’estrazione di acqua e metano dal sottosuolo (che causa processi di subsidenza e quindi sopraelevazione del locale livello marino), della costruzione di dighe per bacini idroelettrici (che trattengono ingenti quantitativi di sedimenti sabbiosi, sottratti così al ripascimento naturale della spiaggia). Benché nuove strutture di difesa siano state realizzate a protezione dei litorali, la migliore strategia d’intervento è sicuramente rappresentata dal ripascimento (➔); d) l’erosione eolica. L’azione esercitata dal vento risulta essere fonte di pericolosità geomorfologica lungo i litorali sabbiosi fortemente antropizzati: qui, a causa dello sfruttamento turistico incontrollato, sono state rimosse e destabilizzate le sabbie dunari e dei cordoni litorali, con il risultato che la maggior parte di questi materiali è andata a ricoprire le confinanti aree coltivate, rendendole impraticabili per l’agricoltura; e) l’erosione glaciale. La pericolosità geomorfologica dei ghiacciai si esplica in aree montagnose, dove l’origine dei dissesti è principalmente connessa alle deformazioni subite dalle masse rocciose in seguito alle pressioni esercitate dalle lingue glaciali che confluiscono nelle valli. Con il ritiro dei ghiacci queste zone, notevolmente fessurate, subiscono crolli improvvisi e i materiali, ostacolando il libero deflusso delle acque, creano le condizioni per potenziali inondazioni; f) l’erosione periglaciale. In ambiente periglaciale la maggiore pericolosità geomorfologica è rappresentata dalle valanghe. Oltre che da fattori ambientali, le cause di innesco delle valanghe possono essere prodotte dall’uomo, soprattutto in quelle aree dove la pressione turistica è molto forte; g) l’erosione carsica. La pericolosità ambientale nelle regioni carsiche è connessa alla presenza di numerose cavità nel sottosuolo, a causa delle quali si possono verificare sprofondamenti del terreno; in aree sismiche, queste cavità rappresentano inoltre un fattore di potenziale pericolosità indotta, in quanto possono causare cedimenti e crolli che vanno a riflettersi in superficie, provocando avvallamenti del terreno e crollo di eventuali edifici presenti.
In tale ambito rientrano tutti gli aspetti riconducibili al ciclo naturale dell’acqua e alla struttura geologica del territorio, che non sono generalmente compresi nell’analisi del rischio di inondazione e di frana, quali mareggiate, valanghe, trombe d’aria, nevicate intense e subsidenza.
Cause Il rischio idrogeologico ha la sua causa prima in fattori naturali, quali le caratteristiche climatiche e geomorfologiche del paese. Per es., nell’ambiente mediterraneo le precipitazioni hanno un carattere essenzialmente aleatorio, presentandosi con una variabilità estremamente accentuata: si possono verificare precipitazioni di carattere straordinario, di intensità pari a 345 volte la media dei massimi annuali delle piogge di pari durata. Con piogge di tale entità, di tipo parossistico, possono diventare instabili anche versanti in complessi geomorfologici che non hanno mai subito (o che hanno subito soltanto in casi del tutto rari e isolati) fenomeni di dissesto di tipo distruttivo, quali colate di detriti o di fango. Piccole frane e smottamenti, presenti nell’arco di tutto l’anno, assumono carattere rovinoso in concomitanza con il verificarsi di eventi meteorologici estremi. Tali eventi accelerano l’erosione dei pendii, provocano frane, trasportano notevoli quantità di materiale verso valle danneggiando colture, abitati, infrastrutture di comunicazione e trasporto. Tuttavia, anche gli effetti dell’azione antropica alimentano condizioni di rischio: i fiumi, per es., continuamente ridotti dalle aree di espansione naturale per la continua e incessante richiesta di aree destinate all’insediamento civile o industriale, sono quasi tutti ristretti in ambiti artificiali con difese che scemano di funzionalità al mutare continuo delle situazioni territoriali al contorno.
Metodologie di intervento La ricerca scientifica deve contribuire a indirizzare gli enti e le amministrazioni istituzionalmente competenti verso metodologie costruttive e di pianificazione in grado di regimare con successo corsi d’acqua, costruire dighe, proteggere versanti, predisporre dispositivi di sicurezza per le zone a rischio di frana. In Italia, il Gruppo Nazionale per la Difesa dalle Catastrofi Idrogeologiche (GNDCI) del CNR ha il compito di elaborare metodologie di studio e sperimentare tecniche di intervento e sistemi di controllo per la mitigazione del rischio, così da definire un modello idraulico-idrologico del territorio in grado di prevedere interventi coordinati, aventi come priorità assoluta la salvaguardia della pubblica e privata incolumità; si deve comunque constatare come in Italia molti anni di disattenzione nei confronti delle risorse naturali, che sono limitate sia nello spazio sia nel tempo e difficilmente rinnovabili, rendano molto faticosa l’azione di recupero e salvaguardia territoriale.
L’approccio scientifico finalizzato alla previsione e alla prevenzione delle frane e delle inondazioni si differenzia in modo sostanziale, date le diverse scale spaziali e temporali dei processi fisici coinvolti: le frane sono un fenomeno tipicamente puntuale, capillarmente diffuso sul territorio, provocato da condizioni peculiari di instabilità locale del terreno, i cui precursori di evento non sono facilmente identificabili se non da monitoraggi onerosi in sito; le inondazioni sono ben definite nello spazio, potendo avvenire solo in corrispondenza di corsi d’acqua di specifiche caratteristiche, sono provocate dal mutuo interagire dei più o meno complessi fenomeni di formazione e concentrazione dei deflussi all’interno di una rete fluviale, e in funzione dell’estensione dei bacini coinvolti è possibile individuare precursori di evento tramite il cosiddetto preannuncio di piena.
Il riconoscimento delle aree che sono state colpite da inondazioni nel nostro paese è stato oggetto da parte del GNDCI di un’analisi molto approfondita, che ha portato a individuare sia la vastità sia la ricorrenza del fenomeno (fig. 1). Per inquadrare in modo organico il complesso fenomeno del rischio idrogeologico si fa riferimento alla più generale equazione del rischio ambientale, in cui il livello di rischio è pari al prodotto di tre grandezze: pericolosità, valore esposto (valore economico dei beni e delle persone potenzialmente colpite dall’evento) e vulnerabilità. Dal punto di vista normativo, l’applicazione di tale equazione consente di suddividere il territorio nazionale in zone secondo 4 livelli di rischio: R1, rischio moderato, zone con danni sociali ed economici marginali; R2, rischio medio, zone dove sono possibili danni minori agli edifici e alle infrastrutture che non pregiudicano l’incolumità delle persone, l’agibilità degli immobili e la funzionalità delle attività economiche; R3, rischio elevato, zone in cui sono possibili problemi per l’incolumità delle persone, danni funzionali agli edifici e alle infrastrutture, perdita di funzionalità delle attività socioeconomiche; R4, rischio molto elevato, zone in cui sono possibili danni gravi alle persone, agli edifici e alle infrastrutture, e la distruzione di attività socioeconomiche. Tale equazione consente anche di inquadrare in uno schema razionale le azioni di protezione civile volte alla difesa idrogeologica, e in particolare di comprendere meglio il significato delle azioni di previsione e prevenzione. La previsione risulta infatti finalizzata a individuare, per un’assegnata tipologia di rischio, le aree vulnerabili, e, all’interno di queste, gli elementi a rischio e la loro vulnerabilità, in modo da pervenire, nota che sia la pericolosità dell’evento, a una stima del rischio su un prefissato orizzonte temporale.
La previsione è quindi un’azione di tipo conoscitivo che deve fornire un quadro accurato e preciso delle aree vulnerabili e del rischio al quale sono sottoposte le persone e i beni in esse presenti. Le misure di prevenzione sono invece indirizzate alla riduzione del rischio nelle aree vulnerabili: si concretizzano attraverso interventi strutturali per ridurre la probabilità che accada un evento e interventi non strutturali per ridurre il danno. I programmi di previsione e prevenzione nazionali, regionali e provinciali sono costituiti dai documenti programmatici che, sulla base della ricognizione delle situazioni di rischio presenti sul territorio, definiscono le azioni di protezione civile finalizzate alla riduzione del rischio. Essi devono costituire il punto di riferimento per la determinazione delle priorità e delle gradualità temporali degli interventi e per l’identificazione dei fabbisogni finanziari. Per ciascun tipo di rischio devono essere predisposti i relativi programmi. Nel caso specifico dei programmi di previsione e prevenzione la politica dei due tempi (cioè la predisposizione, prima, di una completa e dettagliata ricognizione delle situazioni di rischio e, successivamente, la programmazione degli interventi) appare poco efficace, sia per i ritardi che possono in tale prospettiva accumularsi, sia perché nei fatti in tutto il territorio nazionale la conoscenza del rischio idrogeologico, anche se non sempre sufficientemente organizzata, è ampia e può consentire un primo livello di programmazione degli interventi. Ne deriva la necessità di procedere per fasi successive, con una programmazione dinamica che, in una prima fase, oltre a realizzare gli elaborati sulla base delle conoscenze disponibili, preveda anche le indagini e gli approfondimenti necessari a una migliore conoscenza delle situazioni di rischio che possa servire da base per i successivi approfondimenti.
Per il rischio di inondazione i programmi di previsione e prevenzione possono articolarsi in due parti. La prima deve fornire un quadro completo delle situazioni di rischio, indicando i danni che potrebbero essere prodotti da un evento e la frequenza con la quale tale evento può verificarsi. La seconda parte analizza gli interventi già previsti nell’ambito dei piani di bacino o di altre iniziative di difesa del suolo e individua gli ulteriori interventi necessari per ridurre il rischio. La previsione del rischio di inondazione si concretizza nell’elaborazione dei seguenti documenti tecnici: carta delle aree inondabili, catalogo e mappatura degli elementi a rischio, carta del danno, scenari di evento e carta del rischio. La mappa delle aree inondabili deve essere periodicamente revisionata e aggiornata, e in ogni caso non può avere una validità superiore a 10 anni.
La pericolosità sismica è riferita alla probabilità che in una zona identificata si possa registrare un terremoto di una data magnitudo entro un certo periodo di anni. In sostanza, il rischio sismico è il risultato di diverse componenti, rappresentate dalle condizioni geologiche e geografico-fisiche dell’area colpita, dalla densità della popolazione, dalle condizioni del patrimonio edilizio, dal tipo di economia, dal grado di «educazione sismica» di un territorio, dalla presenza di strutture di soccorso e dalla efficienza dei servizi di protezione civile.
Carte nazionali Nell’ambito delle attività finalizzate alla riduzione del rischio sismico l’INGV (Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia), il GNDT (Gruppo Nazionale per la Difesa dei Terremoti) e il SSN (Servizio Sismico Nazionale) hanno prodotto carte del territorio nazionale, realizzate secondo la classica metodologia probabilistica Cornell, secondo cui i tempi di intercorrenza tra terremoti seguono la distribuzione di Poisson (eventi indipendenti e stazionari), la distribuzione dell’intensità è esponenziale secondo la legge Gutenberg-Richter, la sismicità è uniforme all’interno di ogni zona sismogenetica; tali carte presentano tuttavia significative variazioni rispetto alle precedenti per aver applicato differenti periodi di completezza ai dati di sismologia storica, differenti tassi di sismicità e diverse reazioni di attenuazione in magnitudo e intensità. Le carte di pericolosità in questione esprimono i valori attesi di alcuni parametri che dimensionano l’evento sismico (massima accelerazione al suolo, intensità macrosismica; fig. 2) con una data probabilità di superamento dei valori stessi in un determinato intervallo di tempo (tipicamente il 10% in 50 anni, ovvero periodo di ritorno di 475 anni).
Classificazione sismica del territorio Le ricerche per una migliore determinazione della pericolosità sismica, che procedono simultaneamente a quelle complementari per una più esatta stima della vulnerabilità del patrimonio abitativo e degli edifici strategici, assumono particolare significato in relazione al programma di riclassificazione sismica del territorio nazionale, la cui opportunità è resa ancor più urgente dagli sviluppi della normativa tecnica per le costruzioni in zone sismiche. A tale proposito si segnalano i risultati conseguiti dal Gruppo di lavoro del SSN che, su mandato della Commissione nazionale di prevenzione e previsione dei grandi rischi, ha prodotto un’ipotesi di riclassificazione sismica fondata sull’intensità di Housner, un parametro rappresentativo della pericolosità sismica definito come l’integrale dello spettro di risposta di pseudovelocità calcolato in un opportuno intervallo di frequenze.
Zonazione sismogenetica Per quanto riguarda, inoltre, la riduzione del rischio sismico su scala nazionale, si attendono ulteriori risultati in diversi ambiti: nell’aggiornamento dei dati per l’elaborazione della pericolosità (zonazione sismogenetica caratterizzata da zone non omogenee con strutture sismogenetiche in cui faglie principali sono distinte da faglie minori associate, modelli tridimensionali di velocità di propagazione delle onde sismiche e di attenuazione anelastica nella crosta, rivisitazione delle leggi di attenuazione dell’intensità macrosismica secondo i diversi regimi sismotettonici regionali e le caratteristiche di anisotropia e direttività relative a sorgenti estese); nell’applicazione di nuove metodologie per la valutazione probabilistica della pericolosità (metodi non poissoniani, metodi ibridi, stazionari per zone sismogenetiche ed eventi di bassa o media energia, non stazionari per strutture sismogenetiche, ed eventi ad alta energia); nello sviluppo di metodi per la valutazione degli effetti potenziali di amplificazione dello scuotimento del terreno indotti dalle condizioni geomorfologiche locali. Questi ultimi effetti (detti di sito) rivestono particolare importanza per le aree urbane, potendo determinare differenze nel moto del terreno di un ordine di grandezza in 100 m (fig. 3).
Il rischio sismico associato può essere gestito attraverso scenari di danno che presuppongono studi su scala locale quali: identificazione delle caratteristiche geometriche e meccaniche delle sorgenti sismiche prossime all’area di interesse (definizione geometrica secondo analisi di paleosismologia, geomorfologia, sismologia sperimentale e storica, accelerometria, studio e modellazione delle relazioni tra microsismicità post- e intersismica e sorgenti di terremoti di magnitudo medio-alta, valutazione delle interazioni e dei trasferimenti di sforzo tra faglie o segmenti di un sistema di faglie, durante episodi di frattura e in periodo intersismico, studio delle relazioni tra faglie attive e orientazioni del campo di sforzo regionale); sviluppo a scala regionale e locale di modelli realistici di velocità di propagazione delle onde sismiche e di attenuazione anelastica attraverso elaborazioni di sismica attiva e passiva; valutazione del moto atteso al suolo (valori di picco, variazione degli spettri e delle durate del moto) in funzione sia delle amplificazioni relative a complessità di propagazione a scala crostale e locale in prossimità del sito di interesse sia delle caratteristiche geotecniche, idrogeologiche e geofisiche del relativo sottosuolo; studi di vulnerabilità dei centri abitati, dei centri storici e dei beni culturali, stime dell’esposizione della popolazione.
Rischio sismico per le opere infrastrutturali Un altro aspetto di notevole rilevanza è quello relativo alla valutazione specifica del rischio sismico per le opere infrastrutturali (reti viarie, ponti, viadotti e gallerie, centrali per la produzione e reti per la distribuzione di energia elettrica, gasdotti, oleodotti, acquedotti, piattaforme di trivellazione, grandi opere idrauliche e marittime, grandi complessi industriali). Si tratta in questo ambito di analizzare gli effetti sismici diretti sulle opere e quelli indotti sulle stesse da variazioni dell’ambiente fisico provocate dal sisma (subsidenza, liquefazione, crolli in roccia, frane in terreni sciolti). I relativi studi richiedono l’analisi di aspetti peculiari che riguardano: la determinazione di modelli di risposta dei singoli elementi strutturali delle opere (edifici industriali con grandi luci, torri e antenne, fondazioni speciali, tubazioni in cemento armato e in acciaio, opere in terra, ponti ad arco in cemento armato e in muratura, ponti in cemento armato a travate appoggiate e a impalcato continuo ecc.) e dei sistemi collegati in rete, con specifico riferimento per questi ultimi alle problematiche connesse ai percorsi alternativi; la caratterizzazione del moto atteso (spettri in spostamento per lunghi periodi di vibrazione, componenti verticali); la caratterizzazione meccanica dei terreni e delle rocce, in condizioni sismiche e postsismiche, in funzione dello sviluppo di modelli di risposta alle sollecitazioni sismiche dell’ambiente fisico e di modelli di interazione terreno-struttura.
Azioni internazionali Per quanto concerne le azioni internazionali volte a mitigare il rischio sismico, si segnalano i risultati conseguiti dal GSHAP (Global Seismic Hazard Assessment Program), che, nel 1999, a conclusione del «decennio internazionale per la riduzione dei disastri naturali» indetto dalle Nazioni Unite (risoluzione UN42/169/1987), ha prodotto una carta di pericolosità sismica a scala mondiale in cui sono riportati i valori attesi della massima accelerazione al suolo con periodi di ritorno di 475 anni (a in fig. 4).
In vulcanologia, la pericolosità di rischio vulcanico corrisponde alla probabilità che una determinata area sia interessata da fenomeni vulcanici potenzialmente distruttivi entro un determinato periodo di tempo. Essa deve essere riferita a fenomeni ben definiti, per cui un’area a pericolosità zero per un certo tipo di evento può essere a pericolosità elevata per un tipo di evento diverso. Il valore è definito dal numero di persone e di costruzioni, dalla superficie di terreno agricolo, ecc., esposti al pericolo, mentre la vulnerabilità rappresenta la frazione di valore che verrà perduta nel corso di un determinato evento. La valutazione della pericolosità di un vulcano è basata sul presupposto che gli eventi di uno stesso tipo potranno interessare in futuro le stesse aree con le stesse modalità e con la stessa frequenza media verificatesi in passato. Di conseguenza, la conoscenza della storia eruttiva di un vulcano rappresenta la base indispensabile per la comprensione del suo funzionamento, al fine di valutare e mitigare i pericoli connessi alla ripresa dell’attività.
Il potenziamento delle attività di sorveglianza su tutti i vulcani attivi italiani e il conseguente aumento della quantità e della qualità dei relativi dati sperimentali consentono al Dipartimento della protezione civile di pianificare la gestione delle aree a elevato rischio vulcanico attraverso piani di emergenza, strutturati in base a livelli di allerta definiti rispetto all’evoluzione dei fenomeni che tipicamente precedono la fase eruttiva (attività sismica, deformazioni del suolo, variazioni geochimiche dei gas e del flusso di massa e di energia). Tra i metodi di sorveglianza geofisica, il miglioramento di quello sismico presuppone, oltre al potenziamento delle reti sismiche (aumento del numero delle stazioni sui vulcani monitorati, e in particolare di quelle dotate di terne di sensori, con l’installazione di almeno 5 sensori a larga banda per ogni vulcano ecc.), lo sviluppo di tecniche per il monitoraggio delle mutue relazioni tra attività sismica e meccanismi eruttivi. In questa prospettiva le osservazioni effettuate in pozzi profondi, oltre a fornire dati migliori in termini di rapporto segnale/rumore, consentono di ottenere informazioni più affidabili sulla relazione tra sismicità e deformazioni: in particolare, collocando in pozzi di alcune centinaia di metri sensori ad alta sensibilità e in registrazione continua per la misurazione del tensore delle deformazioni, accoppiati a reti sismiche a larga banda, è possibile discriminare segnali in un intervallo di frequenze di diversi ordini di grandezza e utilizzare sistematici calcoli del tensore momento, al fine di stimare le deformazioni sismiche.
Per quanto riguarda la sorveglianza geodetica e gravimetrica, si prevedono lo sviluppo di stazioni permanenti multisensore (GPS, clinometri, gravimetri), con l’obiettivo di parametrizzare la geometria e la dinamica della sorgente dei fenomeni vulcanici in atto, e l’utilizzazione sistematica del telerilevamento da satellite (interferometria radar da satellite), con la predisposizione di relative banche dati di riferimento, per il monitoraggio continuo delle deformazioni che si manifestano sull’intera area interessata dalla crisi. Soprattutto nel caso di sistemi vulcanici soggetti a rapide variazioni della dinamica (per es., Stromboli ed Etna) si attendono risultati dall’integrazione dei metodi geodetici e sismici con quelli elettromagnetici e dei campi magnetico e gravitazionale, anche attraverso il miglioramento di metodologie numeriche di elaborazione su dati in serie temporali continue; variazioni di densità, resistività e delle proprietà magnetiche sono indotte da modificazioni del campo di sforzo e dello stato termo-fluidodinamico nel vulcano.
Relativamente ai metodi di sorveglianza geochimica, le prospettive più interessanti si individuano nello sviluppo di tecniche e strumentazioni idonee al monitoraggio automatico e continuo di fumarole ad alta e bassa temperatura, gas del suolo, acque sotterranee e sorgenti termali: è prevista, per es., la realizzazione di spettrometri a diodi laser semiconduttori (DLS, diode laser spectrometer), spettrometri a differenza di frequenze in cristalli non-lineari (DFG, difference frequency generation), spettrometri infrarossi a trasformata di Fourier (FTIR, Fourier transform infrared) per misurazioni di concentrazione e di rapporti isotopici delle specie gassose. Si ritiene inoltre di primaria importanza la valutazione sistematica dei flussi gassosi globali dei vulcani attivi italiani, sia attraverso l’intensificazione del telerilevamento (mediante COSPEC, correlation spectrometer, FTIR, lidar, radar ecc.) relativo alle colonne e alle nubi eruttive, funzionale peraltro allo studio di modelli fisici della dispersione dei gas in aree abitate con stima del relativo rischio, sia migliorando le tecniche per la quantificazione del degassamento diffuso. Lo sviluppo di metodologie di telerilevamento consente anche di caratterizzare termicamente le aree vulcaniche con la finalità di rilevare anomalie relative all’intrusione di corpi magmatici o all’aumento delle emissioni gassose.
Una tecnica rivelatasi molto efficace, negli anni 1990, per seguire l’evolversi dell’attività eruttiva è quella del monitoraggio petrologico, basata sullo studio delle fasi minerali e delle modificazioni geochimiche dei prodotti eruttati. È possibile in tal modo rilevare prontamente le variazioni occorse nel sistema di alimentazione superficiale del sistema vulcanico, interpretandone il significato. Con riferimento alla caratterizzazione tridimensionale di dettaglio delle singole strutture vulcaniche, si attribuisce notevole significato all’applicazione congiunta di metodologie di inversione su dati gravimetrici e su dati provenienti da sismica attiva e terremoti.
Dal 1995 è operativo il sistema Poseidon per la sorveglianza dei vulcani attivi della Sicilia, la sorveglianza sismica della Sicilia orientale e lo sviluppo della ricerca sui precursori dei terremoti e delle eruzioni. La relativa rete strumentale, gestita d’intesa con la Regione Sicilia dal Dipartimento della protezione civile e dal Dipartimento dei servizi tecnici nazionali, che si avvalgono entrambi della collaborazione del GNV (Gruppo Nazionale per la Vulcanologia)-INGV, dispone di stazioni sismometriche a breve periodo e a larga banda, stazioni accelerometriche, reti geodetiche e stazioni geochimiche, e copre una superficie di 10.000 km2 distribuita nelle province di Ragusa, Siracusa, Catania e Messina.
Il progressivo riscaldamento artificiale dell'atmosfera espone vaste aree della superficie terrestre a differenti tipologie di rischio: rispetto a eventi meteorologici estremi (cicloni ecc.) sono notevolmente incrementate la superficie delle zone a rischio desertificazione e siccità insieme alla vulnerabilità di importanti aree costiere, minacciate di essere sommerse dall'innalzamento di livello degli oceani.
approfondimento di Piero Banucci
L'attuale concetto di ambiente si sviluppa a partire dalla fine degli anni Sessanta del Novecento. Mentre prima l'ambiente era considerato poco più di un semplice contenitore per l'uomo e per le varie specie vegetali e animali, oggi si pensa a esso soprattutto come a un complesso insieme di interazioni fisiche e biologiche e come a una risorsa di per sé limitata, da gestire con grande cautela. Mentre in passato il suo logorio non veniva conteggiato tra i costi di produzione dei beni di consumo, la conservazione dell'ambiente è diventata un fattore non eludibile per l'industria e per la produzione di servizi. I costi occulti dei prodotti industriali (come l'immissione di gas serra nell'atmosfera) sono destinati a diventare espliciti nella struttura dei prezzi. In questa prospettiva, che comporta la costante valutazione dell'impatto ambientale di ogni azione umana, acquista particolare importanza il concetto di rischio ambientale, cioè la valutazione delle conseguenze immediate e remote di un danno, certo o eventuale, recato all'ambiente. L'analisi del rischio ambientale e industriale (spesso largamente sovrapponibili) è oggi una disciplina di cui si occupano diverse organizzazioni internazionali, decine di riviste e migliaia di studiosi e di professionisti. Tuttavia essa soffre di scarsa credibilità presso l'opinione pubblica: nel passato la maggioranza degli studi sul rischio ambientale, commissionata da enti pubblici e aziende multinazionali, ha avuto l'intento di dimostrare il ridotto impatto delle loro iniziative, in ogni caso da qualificare favorevole per i cittadini sulla base del rapporto tra costo e benefici. La conseguente crisi di fiducia si esprime in una crescente conflittualità tra le popolazioni da un lato e amministrazioni pubbliche e grandi aziende dall'altro, fino a una vera e propria paralisi decisionale.
La valutazione del rischio ambientale deve fare riferimento al concetto di vulnerabilità in quanto il rischio è sempre influenzato da numerosi fattori specifici, che vanno dalla densità della popolazione alle interazioni tra i vari sistemi territoriali: strade, telecomunicazioni, ospedali e così via. Ciò è vero a maggior ragione per un paese come l'Italia, che risulta al primo posto tra quelli industrializzati per danni da calamità naturali come alluvioni, frane (un terzo del paese è geologicamente instabile), terremoti, e dove solo di recente si è sviluppata la pianificazione dell'emergenza e di conseguenza il disaster management (la gestione della calamità). La valutazione del rischio è di per sé probabilistica: consequenziale quindi che un suo strumento fondamentale sia il calcolo delle probabilità, i cui prodromi risalgono allo studio commissionato nel 1685 al matematico J. Bernoulli da una compagnia di assicurazione dei Paesi Bassi. Più tarda è la valutazione del rischio industriale, che risale alla fine del Settecento e a uno studio sull'affidabilità delle caldaie per la macchina a vapore ideata da J. Watt. Recentissima è la formalizzazione del rischio ambientale: soltanto nel 1969 gli usa hanno varato il nepa (National environmental policy act), procedura poi ripresa da una direttiva europea del 1985 con il nome di Valutazione di impatto ambientale.
Anche nel rischio ambientale, come in quello industriale, è fondamentale la definizione del cd. albero del guasto, cioè un metodo che di ogni evento analizzi i diversi esiti e sotto-esiti derivati. La pratica nasce nel 1961 alla Bell telephone per valutare l'affidabilità del sistema di lancio dei missili a testata nucleare. Si tratta in sostanza di un diagramma con diramazioni ad albero in grado di descrivere tutte le possibili conseguenze di un evento avverso. In molti casi a posteriori sono emersi errori di sottovalutazione: N. Rasmussen (1927-2003), del Massachusetts institute of technology, sbagliò la stima della probabilità di incidente nucleare di un fattore mille, come fu acclarato dagli incidenti di Three Mile Island e di Černobyl´. L'elettronica e il software, il cui funzionamento è del tipo 'tutto o niente', introducono ulteriori incertezze in quei casi, comuni anche nel controllo ambientale, in cui siano utilizzati sensori e computer.
Il rischio ambientale è determinato da una doppia vulnerabilità: fisica del territorio e sistemica. L'Italia, per es., ha una evidente vulnerabilità dovuta alla franosità, alla sismicità e vulcanicità del territorio. Ma ancora più determinante è la vulnerabilità sistemica tipica delle aree densamente popolate e ad alta tecnologia. Emblematico della fragilità di sistema fu il black-out di New York del 1974: una grande nevicata causò l'interruzione della rete elettrica, con il conseguente blocco di metropolitana, ascensori, semafori, distributori; della paralisi approfittarono bande criminali per saccheggiare supermercati e alloggi.
Il rischio ambientale di origine naturale (terremoto, eruzione, alluvione, frana, valanga) è oggi in buona misura gestibile con una saggia programmazione del territorio, moderne tecnologie e adeguati piani di emergenza. Specifici algoritmi consentono di prevedere l'albero degli eventi da fronteggiare: per es., nel caso di un terremoto di magnitudo 8,3 a San Francisco crollerebbe il 35% degli edifici da 5 a 10 piani costruiti prima del 1911 nell'area del porto e, a seconda dell'ora del sisma, nella Bay Area ci sarebbero da 1.000 a 9.000 morti e da 7.000 a 40.000 feriti gravi. In Italia la regione a più alto rischio ambientale è la Campania: 176 comuni esposti ad alluvioni, 123 a inondazioni, più un forte rischio sismico per 3 milioni di persone e un alto rischio vulcanico per 800.000. Di recente si è considerato anche il rischio dell'impatto di un asteroide con la Terra. Si conoscono ormai più di mille pianetini potenzialmente pericolosi. Un evento radicalmente catastrofico si verifica in media solo ogni 100 milioni di anni. Tuttavia i calcoli dicono che la probabilità di decesso per impatto di un asteroide è sorprendentemente alta: 1 su 20.000 più o meno come quella di perire in un incidente aereo.